Gesù, fate luce sul ciclismo
di Gian Paolo Porreca
Cerchiamo, cerchiamo e ricerchiamo ancora i filuzzi d’oro nella memoria e nella speranza, ma non abbiamo particolari motivi concreti per augurare ed augurarci un Felice Anno Nuovo, ciclisticamente parlando innanzitutto.
Se ne è andato, questo è poco ma sicuro, un anno di grande ciclismo. Ma di grande ciclismo scomparso. Con Gino Bartali, con Antonio Maspes, con Jacques Goddet e pochi giorni prima di Natale, nella città da cui scriviamo, con Vincenzo Milano, - «don Vincenzo», come lo si usava chiamare - il Torriani delle nostre umili fughe, lui che fu il creatore del Giro di Campania. Se ne è andata via in un solo volgere di calendario una forte, fortissima immagine di totale ciclismo: il Campione su strada, il Campione su pista, l’Organizzatore, o gli Organizzatori, se vogliamo. Se ne è andato un intero microcosmo dalla poesia e dal fascino squisito di un presepio, se abbiamo l’ardore di crederci.
Un anno di grande ciclismo scomparso. Che semmai si è ridestato e si è scoperto ancora vero, nel festeggiare gli 80 anni di Fiorenzo Magni, nel ritrovare quella sua foto da copertina mirabile de La Domenica del Corriere, lui che stringeva fra i denti una tela di copertone legata sul manubrio, per aiutarsi a fare in tal modo forza sui pedali, lui che correva con la clavicola rotta, nella cronoscalata del colle di San Luca, al Giro del ’56.
Di questo ciclismo del 2000, se vogliamo guardare innanzi, ci incoraggia solo il passato remoto e la sua lezione. Non il recente.
Lasciamo stare Pantani e la sua storia, la sua condanna sanzionata dal giudice Del Bianco di Bologna. Lì siamo sulla soglia di una situazione di nonritorno, se non agonistico certamente sentimentale, in una regione del dubbio documentato, impenetrabile ormai alla luce del vero; dove appare ancora più sconcertante, ad esempio, l’ultima decisione dell’entourage del Pirata, quella del cambio del collegio di difesa, periti di parte compresi. Come il cambio degli allenatori, quando perdenti, in una squadra di calcio. Sull’onda di quanto si è arrogato di affermare uno sprezzante Pantani, in una intervista televisiva, già «quelli erano avvocati comuni»: diomio, su che fondo di vergogna siamo atterrati, noi del ciclismo di Bartali e Goddet... «Un buon avvocato e passa tutto», come a suo tempo sentenziò, per Bugno e la caffeina, il direttore sportivo Stanga. Ed intanto è passato pure il ciclismo. Lasciamo stare, ancora, lo scarso afflato popolare di un vincitore del Giro, pur chiaro, pur promettente come Garzelli, troppo presto appassito. Lasciamo stare altre grandi piccole cose, dalla delusione di Bartoli alla nostalgia di Figueras.
Ma personalmente quello che ci pervade di un particolare scoramento, e che riverbera di conseguenza una sfiducia davvero disarmante su tutto il nostro mondo - le nostre sirmate certezze comprese! -, è la vicenda che ha coinvolto nelle ultime settimane Lance Armstrong e la sua US Postal.
Gli sviluppi del sequestro nel corso dell’ultimo Tour, ad opera degli inquirenti francesi messi in allarme da una denuncia anonima, di una sacca contenente un novero non meglio definito di farmaci sospetti, e di verosimile provenienza da una vettura del parco macchine dell’équipe statunitense, sono francamente allucinanti. La prima sostanza trapelata, in questa nuova indagine della giustizia transalpina, è infatti l’Actovegin, un prodotto a base di sangue lisato di agnello, non in vendita in Italia e in Francia, presente nei prontuari farmaceutici norvegese e ungherese, e sembra anche asiatico, utilizzato in forma di gel per applicazioni locali o di fiale per infusione endovenosa, per facilitare la guarigione di ferite superficiali e per migliorare la circolazione periferica.
Bene. Questo farmaco, se le cose stanno così, ci ricorda curiosamente un prodotto in voga nella nostra prima esperienza medica, intorno agli anni Ottanta, il Solcoseryl, un derivato di sangue di vitello, che pure aveva un siffatto campo di applicazione: ulcere vascolari e difetti di circolazione periferica. E che a un certo punto fu però tolto dal commercio, perché considerato in assoluto di scarsa utilità clinica. E fin qui siamo nell’ambito della curiosità scientifica.
Ma il problema, per Armstrong e compagnia bella, sorge quando il principe de Merode, presidente della Commissione Medica del CIO, sentenzia che l’Actovegin deve sessere considerato come sostanza dopante a tutti gli effetti, per manipolazione ematica, dal momento che la sua azione fluidificante potrebbe servire a mascherare una contemporanea assunzione di Epo. E lo sconforto si fa totale, come dinanzi ad un’alba senza luce, quando Verbruggen, presidente dell’UCI, ci dichiara invece il contrario: “«l’Actovegin n’est pas dopant», il CIO sbaglia e sa benissimo che è stato usato da tanti atleti agli ultimi Giochi di Sydney”. E adesso, a chi crediamo? Gesù, fate luce!
Noi ci fermiamo qui. Forse non sempre. Meglio tornare a Maspes e a Milano, a Goddet e a Bartali. Ma prima chiediamoci una volta ancora, per auspicare un desiderio di giustizia almeno per l’anno nuovo, noi che scriviamo e voi che leggete, se è davvero onesto continuare a giocare, con queste regole di siffatta e antitetica volubilità, a chi arriva primo. In bici o anche senza.
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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