Gatti & Misfatti
La Rai che vorrei
di Cristiano Gatti

Tra girotondi e nuove nomine, impazza nelle piazze e sulle spiagge d’Italia il nuovo gioco di società: «La Rai che vorrei, la Rai che farei». I sessanta milioni di commissari tecnici si sono stufati di fare la formazione della nazionale: adesso puntano direttamente al palinsesto. E noi, che adorando il ciclismo siamo necessariamente e dannatamente teledipendenti? Ammettiamolo: anche noi abbiamo in mente una Rai ideale, benchè limitata alle storie di bicicletta. Io, quanto meno, ce l’ho. Più o meno, la Rai che vorrei, la Rai che farei, soprattutto adesso che è in arrivo il “Giro”, sarebbe così.

Comincerei da Auro Bulbarelli, ormai la voce ufficiale delle dirette. Inutile chiedergli impossibili imitazioni dell’esemplare unico De Zan. Vada per la sua strada, si costruisca uno stile suo. Se comandassi io, gli chiederei espressamente di non ridere in continuazione. Non so se qualcuno gli abbia mai detto che c’è un momento per ridere e uno per piangere, che la visione ironica della vita non significa buttare tutto in vacca. E non so neppure se abbia presente quel che si dice in giro da un po’ di secoli, e cioè che il riso abbonda sulla bocca... eccetera eccetera. In ogni caso, gli imporrei di limitare questa fastidiosa incontinenza. Può farcela. Se vuole un metodo, provi quello che usavamo da piccoli per non ridere in chiesa: pensare all’interrogazione di storia, o a un’ipotetica morte di Rin Tin Tin. Lui è pure avvantaggiato: se non ha voglia di concentrarsi, ha lì di fianco la faccia di Cassani.

Punto due, proprio Cassani. A lui chiederei di levarsi ogni tanto il paraocchi del corridore, per guardare la realtà con spirito libero. Così, ci eviterebbe i momenti surreali e grotteschi di certe giornate drammaticamente segnate dalle retate antidoping, quando ineffabile e garrulo - forse pensando che gli italiani siano tutti dementi - liquidava la clamorosa cronaca in due battute (“speriamo che tutto si chiarisca presto”) per passare alle improbabili fasi agonistiche, come se niente fosse. Caso mai avesse rimosso, gli ricordo soltanto l’ultimo Giro: col mondo che gli crollava in testa, anzichè fare informazione e avviare discussioni sul tema del giorno, lui raccontava entusiasta quanto fosse spettacolare l’attacco di Simoni. Imbarazzante.

Poi c’è il capo, il direttore Giovanni Bruno (almeno fino a nomina contraria). A lui, se ancora ce lo infliggono, imporrei con la pistola alla tempia di curarsi dalla Sindrome di Pingitore, questa manìa nefasta che negli ultimi anni l’ha spinto a reclutare ogni genere di squinternati per mettere in piedi il suo personalissimo Bagaglino. Se vuole fare l’impresario comico, cambi scrivania. Il ciclismo non ha alcun bisogno di cucirsi addosso l’etichetta dello sport per minus habens: purtroppo ce l’ha già da sempre, con quell’idiota luogo comune del “ciao mama, sono arivato uno”. Il ciclismo ha bisogno di svecchiarsi, di disinibirsi, di emanciparsi. Di presentarsi semplicemente per quello che è: uno spettacolo, non uno spettacolo per deficienti.

Avendo mano libera, abolirei poi quella voce sinistra e sepolcrale, direi da toccarsi i marroni, che accompagna ormai gli approfondimenti serali del «Giro». Dicono appartenga a tale Fioravanti, forse parente dei più noti tortellini. Se ho capito bene, nelle intenzioni fungerebbe da intrigante e fascinoso conduttore fuoricampo. In generale, ispira allegria come una medium durante le sedute spiritiche. A quel punto, meglio l’italiano alla vaccinara di Giggetto Sgarbozza. Lui almeno siamo sicuri che viene dall’Aldiquà. Anche perché nell’Aldilà non ce lo vogliono proprio.

Se mi restasse del tempo, passerei a Fondriest. A lui chiederei quello che gli ho già inutilmente, direi ormai pateticamente, chiesto troppe volte: di scegliere se fare il costruttore di biciclette o il commentatore tecnico (tutte e due le cose assieme è scandaloso: conflitto d’interessi, dice niente questa parola?). Caso mai mi chiedesse poi un consiglio, non avrei dubbi: lo inviterei caldamente a fare il costruttore.

Infine, qualcosa direi anche ai giovani del gruppo: Fabbretti, De Stefano, Iacobini. Li chiamerei e direi loro: ragazzi, tenetevi alla larga dal “Bagaglino”. Sforzatevi di fare il mestiere che vi piace, cioè produrre giornalismo. Evitando, se possibile, retorica e luoghi comuni. Cercando, se possibile, curiosità e belle storie. Portando in video, se possibile, vivacità e freschezza. Resistete. Nei momenti di depressione e di sconforto, vi sostenga una consolante certezza: i direttori passano, la Rai resta.

Cristiano Gatti, bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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