Incontro due volte all’anno Sergio Zavoli, che detiene le 94 primavere più lucide del mondo. Ci ritroviamo in Abruzzo, a Chieti, per i lavori della giuria di un importante premio calcistico, ma fra noi parliamo quasi soltanto di ciclismo. Facciamo finta di poter rifare, un secolo o l’altro, se non un millennio o l’altro, il Processo alla Tappa, a cui lui mi convocava spesso. Aleggia ancora in Abruzzo il ricordo forte di Vito Taccone. Al Giro d’Italia Sergio mi assegnò sovente la parte, peraltro da me sentitissima, di teledifensore e telelaudatore di Balmamion, che vinceva per due anni di seguito, 1962 e 1963, la corsa rosa senza vincere una tappa e non godeva - ingiustizia - della popolarità di Taccone che si pappava tappe su tappe (addirittura quattro di fila vinte nel 1963), si autoproclamava camoscio d’Abruzzo ma sulle montagne grandi spariva. Nella regione di Taccone godevo di una vasta impopolarità, evidenziata da cartelli “contro”, anche se di Vito ero amico e ci si intendeva bene, noi due, su un sacco di cose.
Non però di questo voglio parlare, bensì del concetto di longevità legato al ciclismo. Io sempre più ritrovo ciclisti dei miei Giri d’Italia (dal 1959 al 1999, non tutti ma tanti, in totale 28) che sono invecchianti bene, conservando memoria e mobilità. Intanto che sempre più apprendo di calciatori che non arrivano alla media vecchiaia anagrafica perché muoiono prima, e sovente da malati, o che ci arrivano ma in condizioni fisiche precarie. Al punto che viene da dire, che se davvero il ciclismo frequenta eccome il doping e il calcio quasi no, come affermano molti sapientoni o meglio saccentoni, si potrebbe e forse si dovrebbe desumere che il doping fa bene.
Mi viene qui da raccontare che un mio amico è andato a Londra di recente per una rentrée dei Rolling Stones da lui amatissimi, e mi ha detto di avere notato che Mike Jagger, il leggendario leader del complesso, è del 1943 come Mario Monti, il nostro importante e severo e stimato personaggio dell’economia e della politica, ma da come si muove frenetico sul palco, e al confronto con la saggia apprezzata pacatezza dello stesso Monti, sembra suo figlio. Ora, sapendo di certe ammissioni/confessioni dell’idolo canoro a proposito di assunzioni di stimolanti ed eccitanti, sino anche alle droghe pesanti, e ovviamente sapendo dell’apprezzata integrità fisica e mentale e morale di Monti, viene da colpevolmente ma anche paradossalmente pensare che le droghe non siano poi troppo o sempre da demonizzare, quanto meno per il loro “rendimento” sul piano diciamo atletico.
Ma c’è di più. Non ho statistiche e neppure esempi diciamo popolari sottomano, ma ho sempre constatato che i ciclisti, una volta smesso di pedalare, diventano tutti splendidi guidatori di auto, capaci di velocità alte e di medie strepitose e insomma di autentici rallies al volante, per tragitti lunghi e difficili richiedenti resistenza somma e riflessi superpronti. Come se quella fosse sempre stata la loro vera e principale e piena attività.
Una volta ad uno di loro, un ciclista celebre della mia città, reduce con me da un viaggio aereo con arrivo all’aeroporto dove avevo lasciato la mia auto, affidai il volante: “Guida tu, fammi un venti chilometri mentre mi rilasso e intanto mi concentro, poi ti do il cambio”. Mi svegliò sotto casa mia, dopo quasi 200 chilometri in cui io avevo dormito e lui aveva guidato bene, senza che il mio “riposino” fosse turbato. Devo precisare che il giorno prima lui aveva pedalato in gara per quasi 300 chilometri di gara, io avevo lavorato al massimo un due ore a scrivere articoli.
E a proposito di annotazioni e precisazioni: se qualcuno crede di avere già letto di questo episodietto occorsomi, e magari proprio su questa pubblicazione e si capisce riferito da me, magari non si sbaglia, anche se io non ricordo tutto bene. Il fatto è che io pedalo verso gli 83 anni e non ho certo la longevità lucida dei miei amici ciclisti. Né di un Churchill che, ai nostri antipodi, partecipava così la ragione del suo invecchiare splendidamente: «È lo sport, ma nel senso che mai e poi mai l’ho praticato. Al massimo qualche marcetta per seguire il funerale di qualcuno che in vita aveva fatto tanto sport ed era morto precocemente».
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