Pensavamo, l’altro giorno, nel far di conto che Vincenzo Torriani era scomparso giusto da venti anni, cifra tonda, che la sua conoscenza ci ha premiato in vita. Vincenzo Torriani, e lui lo sapeva, glielo raccontavamo le volte che il Giro si fermava a Napoli o in Campania, era di casa per noi.
La sua voce, dalla TV in bianco e nero o forse a colori, abitava il salotto, faceva bella mostra di tonalità, mentre noi studiavamo.
Facevamo finta di farlo, fra Gabica e Zilioli, Gomez del Moral e Schiavon, tanto che si sarebbe rappresa come una eco ereditata alle pareti. (Un giorno ci telefonò, ed in nostra assenza gli rispose Cecilia, la governante di famiglia altoatesina, che il cognome non lo avrebbe ben compreso, ma la voce, quella sì, “ha chiamato per voi quel signore con la voce rauca, sapete, quello del Giro alla televisione...”).
Vincenzo Torriani, dicevamo, ci ha premiato in vita, per la sua amicizia, mediata da Bruno Raschi, dal ’77, e vissuta oltre. Ci ha onorato e rimproverato, come nell’amicizia vera, semmai modulata da un divario anagrafico di qualche decennio, è giusto che accada.
Ci commosse, mentre vivevamo un turno di guardia in Ospedale di maggio ’76, era in corso il Giro che aveva conosciuto la morte tragica di Juan Manuel Santiesteban, e noi non lo conoscevamo se non appunto di viso e fumo dallo schermo, quando volle dare pubblicità stentorea in televisione ad un nostro personale desiderio. “Il ciclismo non morirà mai, finchè ci sarà uno sconosciuto, come oggi è un giovane medico napoletano, che avrà il cuore di istituire a sue spese un premio in ricordo di un ciclista scomparso in corsa...”, più o meno.
E seppe però ammonirci, anni dopo, e ci arroghiamo il pudore di poterlo scrivere, quando non riuscimmo ad accompagnare - come lui, lui Vincenzo, ci aveva chiesto, “un amico grande, un amico medico non può dire di no...” - Bruno Raschi, gravemente malato, ad un consulto clinico fissato da un luminare in Francia.
È stato un premio, per noi, conoscere Vincenzo Torriani. E venti anni dopo, con la memoria che non inganna e non colpisce a caso, regala ancora i suoi flash. Lontani pure dall’agonismo puro, dalla statistica, dal magistero di una vita da patron lunga dal ’49 all’89 o giù di lì, con quei primati delle partenze nel ’73 dal Belgio - il più bel Giro della mia vita -, con cinque tappe fuori nazione, e nel ’74 dal Vaticano...
Un premio, quella sua ironia sobria e disincantata. Non si ride, nell’esistenza, si sorride. Come quella battuta, a Caserta, a cena, nel 1982. “La aspetta Vanvitelli alla Reggia, stasera, patron...”. “Ditegli di ripassare, perchè sono stanco...”, con gli occhi socchiusi.
Un premio, infine, e il bianco di questa pagina sono i ricordi celati, nell’ultimo incontro, quando già il suo cervello era sfumato, ma lo sguardo folgorava di straordinari lampi ancora. Aversa, Giro d’Italia 1992.
Lui, all’interno di una tenda. “Mi fai un piacere, mi accompagni don Piero Carnelli all’Aeroporto di Capodichino? Sai, è il mio cappellano, mica solo il confessore del Giro, e potrei averne prima o poi bisogno anche io”.
Ed avrei ubbidito solerte come un buon gregario, senza immaginare che Torriani non lo avrei più visto, dopo quel giorno torrido di maggio. Ma lo avrei sempre silenziosamente ricordato. Dentro e fuori di me. Molto meglio di così.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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