Per quelli che sono rimasti, di appassionati di ciclismo, a Nibali e Pantani, Armstrong e Contador, forse sarebbe il caso di farsi tutti un dietrofront in bici e tornare da Bernard Hinault, che ha compiuto il mese scorso 60 anni. Le blaireau, il tasso, come lo chiamavano in gruppo, per la sua capacità di nascondersi nel plotone e poi sferrare le sue micidiali offensive di campione straordinario.
Un giro, contropedalando, dunque, sulle rotte tracciate da Bernard Hinault, quel francese di Yffiniac, scontrosa punta di Bretagna, caparbio quali i i marinai bretoni delle leggende salgariane, che resta nella storia del ciclismo come l’ultimo dei fuoriclasse.
Quell’Hinault che seppe dire basta, senza dare spazio al crepuscolo patetico della nostalgia e delle sconfitte, dopo aver tirato la volata, nel Tour di quell’anno, al suo delfino Greg Lemond, a soli 32 anni: 9 novembre 1986, con un ciclocross di Quessoy, sotto casa, da enfant du pays, una festa sui prati.
5 Tour de France, due Vuelta España, tre Giri d’Italia, su tre sole partecipazioni, fra l’altro, un record da percorso netto. 10 Grandi Giri in totale, uno solo in meno di quelli che mise in fila Eddy Merckx, l’inarrivabile plurivittorioso del ciclismo, e con due accoppiate Giro-Tour (’82 e ’85). E l’unico, ancora, ad averne vinti almeno due di ognuno.
Scalatore e fondista, ma forte pure contro il tempo, qualcosa di Gino Bartali, appena più moderno e sorridente, non solo per analogia di virtù tecniche, ma anche di carattere, per tenacia e resistenza, atleta dal tempo lungo dei Grandi Giri, pure Hinault seppe imporsi in molte classiche monumento, 2 Liegi-Bastogne-Liegi, 2 Lombardia, 2 Freccia Vallone, 1 Roubaix, oltre al Mondiale di Sallanches del 1980, consegnate sempre, per il modo autorevole del vincerle, alla Hinault.
Come fosse stato un marchio di autore, un sigillo doc. Hors catégorie.
Pensiamo, innanzitutto, alla Liegi più dura, più proibitiva che si ricordi, come quella del 1980, disputata per intero sotto una tempesta di pioggia e ghiaccio, che faceva rabbrividire anche i telespettatori lontani, e che lui seppe vincere - lui e la neve -, con quasi 10 minuti sul secondo, l’olandese Kuiper, in un giorno di tormenta per cui pure l’ultimo dei 21 superstiti al traguardo - Joestein Wilmann - apparve un eroe omerico.
O la Roubaix del 1981, quella in cui - lui, non velocista -, seppe battere di potenza De Vlaeminck e Moser. Di potenza, già, come nella Sanremo del ’50 un certo Bartali aveva sorpreso Van Steenbergen...
Giustiziere amabile, in casa nostra, di un Saronni ancora in divenire, di un Contini amletico e di un Moser al declino, specie in salita, Hinault seppe dare curiosamente lustro ad un avversario antico, inossidabile, come Vladimiro Panizza, che finì secondo alle sue spalle, a 35 anni, nel primo Giro vinto dal campione francese, quello del 1980.
Un Giro, quello, che Hinault vinse grazie ad una strepitosa impresa nella Cles-Sondrio, era il 5 giugno, dominando lo Stelvio. E che donò un gesto di profonda dolcezza, in una corsa dall’agonismo spietato: gli avversari, da Panizza, maglia rosa spodestata, a Contini, da Beccia a Prim, costretti impietosamente alla resa. Per distacco.
Con lui, al suo mozzo, c’era il giovane gregario Jean Renè Bernaudeau, esordiente nella Renault. Hinault l’aveva voluto in squadra al Giro, pure da neofita, perché il ragazzo aveva appena perso tragicamente il fratello, quasi per non lasciarlo solo oltralpe. Ed in quella cavalcata, senza chiedergli un cambio, verso il suo primo Giro d’Italia, Hinault, misericordioso come solo Bartali era stato nel ciclismo, si superò immensamente.
Lasciò infatti la vittoria al suo compagno, in lacrime. Senza recita, senza aplomb. Struggente come soltanto il ciclismo migliore ha saputo essere, in quella occasione Hinault diventò il primo dei campioni gentiluomini. Ben prima di affermarsi, era all’inizio della carriera, come l’ultimo dei fuoriclasse.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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