Mi accorgo, accingemdomi al consueto appuntamento “di rubrica”, che mi sono in qualche modo qui impegnato, negli articoli ultimi, a parlare del giornalismo ciclistico e di riflesso del ciclismo dei miei tempi, soprattutto anni Sessanta e Settanta, che però sembrano tempi vivi, da quello che molti mi chiedono, in svariate occasioni, di ricordare e raccontare. Ho già riesumato molto e molti, con tanto riconoscente rispetto, e ora mi permetto di essere amorevolmente dissacrante. Comincio con lo scrivere che la maggior parte dei celeberrimi giornalisti che hanno davvero creato con i loro scritti il ciclismo eroico e poi il ciclismo nazionalpopolare hanno visto poco o niente i ciclisti in azione.
Strade brutte, automobili precarie, voglia di ristorante poi evolutasi nella enogastronomia da culto, tutto ha concorso perché le tappe venissero trasformate in spostamenti automobilistici da una località all’altra con sosta al ristorante celebre o comunque allertato, prenotato, gratificato, servizievole. Ricordo bene il trauma al mio primo Giro d’Italia, anno 1959: volevo vedere corridori in azione, mi si faceva notare che era pericoloso e che poi le tagliatelle speciali scuocevano. E dire che stavo, da uomo in più dell’équipe di Tuttosport, sull’auto di un settimanale chiamato Il Campione, diretto formalmente da Felice Placido Borel II detto Farfallino, grande calciatore della Juventus iperscudettata e della Nazionale campione del mondo 1934 e soprattutto amicone mio.
Felice, uomo del calcio, ci stava ad avvicinare in gara i ciclisti dei quali era curioso, però la sua greve automobile, una seriosissima Fiat 1400 scura, veniva acremente cacciata via o meglio avanti dalla polizia stradale e degli addetti dell’organizzazione. Così mi convinsi in fretta che voler seguire con gli occhi i corridori era reato e peccato insieme, e accettai di felicemente soccombere ai ristoranti, gettando le basi del mio da allora progressivo ingrassaggio.
Ho fatto in tempo a conoscere alcuni dei giornalisti cantori, che erano talora sgrammaticati e ostivi regolarmente al club del congiuntivo, ma sempre sinceri, fervidi, appassionati, tanto è vero che spesso rimproveravano a se stessi e ai loro voraci autisti l’abbandono della corsa a pro di qualche mangiata sublime. Ho vissuto in pieno l’epoca che per comodità e non solo (anche per rispetto, e debito) chiamerei di Gianni Brera, che seguiva il Giro d’Italia e, a segmenti, anche il Tour de France, mobilitandoci con la notizia del suo arrivo, trasmessaci da Mario Fossati suo fratello di scrittura, non solo di testate. Mi prenotavo per stare a cena con lui nel dopotappa, mi appuntavo in testa le sue parole, le sue frasi, sempre geniali anche se spesso paradossali, e paviacentriche, nel senso che tutto ma proprio tutto ruotava intorno alla storia della città longobarda, il resto tutto del mondo era al massimo un villaggio satellite chiamato Milano, felicemente vicino a Pavia. Brera aveva qualche voglia in più degli altri di vedere i corridori in azione, e questo mi sembrava molto bello e rafforzava il mio tifo quasi religioso per lui. Anche se non spartivo un atomo dei suoi giudizi sul mio Piemonte, colpevole di avere fatto un’Italia che non era tutta Bassa Padana, nonché a parer suo regione da rispettare soltanto per i vini, che arrivavano persino ad essere simili a quelli delle colline pavesi. “E la Fiat?”, provavo a dirgli/chiedergli. “Gli Agnelli sono lombardi di origine comasca”, mi diceva rabbuiandosi. Perché davvero mi voleva bene, e non tollerava queste mie smagliature.
Quando ho avuto abbastanza tacche di Giri e di Tour per non dover pagare nessun dazio da matricola o quasi, ho sempre rispettato e amato i figli minori (essì) dei cantori, epigoni ancora su piazza. Potrei fare tanti nomi e cognomi, ma sono tutti morti e pare non porti buono. Ho comunque succhiato anche da loro quel che potevo ancora di amore per il ciclismo. Perché anche il grande celebre scrittore, quando veniva spedito sul Giro (idem lo scrittore celebre francese spedito sul Tour) si riteneva un privilegiato, un unto dal singore della bicicletta, e scriveva da umile giornalista-gregario di quelli che anche in Italia chiamavamo i “réputés”, abbreviando il “réputés techniciens” con cui loro stessi, si autodefinivano su L’Equipe e dintorni giornalistici.
Che tempi. Bei tempi. Ogni tanto gioco al gioco di pensarmi all’ultimo istante di vita con un dio benigno, assai comprensivo dei miei peccati abbondanti, che mi chiede qual è il mio ultimo desiderio da giornalista, visto che sono stato soprattutto giornalista. E dico “seguire un altro Tour de France”, persuasissimo come sono che quella sia l’ultima occasione (sperando che tutto non sia evoluto cioè mutato in questi ultimissimi miei anni di latitanza) perché uno, se ha voglia vera di fare il giornalista sportivo che batte gli altri per dedizione e umiltà e attenzione e spirito di ricerca, possa farcela ad esser come aspira, mentre altrove anche nel nostro mestiere trionfa il troppo comodo, l’eguale per tutti, la routine. Ma forse sono ridotto anch’io come i cantori buone anime, per i quali il paradiso era un italiano che pedalava e vinceva in Francia, mentre loro stavano seduti a tavole da re.
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