Ci sono almeno due cose che mi confortano e mi rendono meno amaro il distacco terreno di Alfredo: ce lo siamo goduto per tanti anni e non gli abbiamo mai fatto mancare il nostro affetto. Non ho rimpianti, perché Alfredo se ne è andato ben sapendo quanto gli volevamo bene. Non è capitato come a tante mamme e a tanti papà che non sono riusciti a parlare fino in fondo con i propri figli. E quei figli che ancora oggi si portano dietro il cruccio e il magone di non essere mai riusciti a dire alla propria mamma o al proprio papà «ti voglio bene». Ad Alfredo è stato detto. Gli è stato scritto. Più volte. Questa è una grande fortuna. Forse la più grande in assoluto.
Non è da tutti vivere avvolto dall’affetto e dalla riconoscenza della gente. Non è da tutti leggere per anni sui giornali cose belle e dolci. Generalmente, quasi sempre, tutti si diventa più buoni e più saggi solo dopo essere passati a miglior vita. Per dirla in un gergo giornalistico, Alfredo ha avuto il privilegio e la fortuna di aver letto per anni “coccodrilli” bellissimi. Quei “coccodrilli” (agiografie che i giornali tengono nei cassetti, pronte alla bisogna) che generalmente nessuno riesce a leggere in vita, lui li ha letti, uno dopo l’altro. Per anni. Diciamo pure per decenni, perché Alfredo - un vero gigante di umanità e buonsenso - lo meritava.
Ha sempre pensato positivo, anche in questi anni difficili, lui che ha conosciuto la guerra e la vita agra. Ha sempre guardato al bicchiere mezzo pieno, al sole che sorge o tramonta, con la meraviglia e la purezza e gli occhi di un bambino. Di Alfredo mi mancheranno i suoi aforismi dettati da una saggezza autentica e vera. Mi mancheranno le sue citazioni poetiche e dotte ma anche le esilaranti barzellette. Era un uomo di compagnia, che sapeva parlare al cuore delle persone - tutte - non solo dei corridori.
Ci lascia in eredità la sua voglia di andare avanti, di esplorare, di misurarsi sempre e comunque, anche quando la strada si fa sempre più dura e tortuosa. Ci lascia un Nibali campione e un ciclismo italiano maledettamente in crisi. Non a livello di vocazioni o di talenti, ma dal punto di vista politico, economico e organizzativo. C’è un ciclismo da riscrivere e un Giro da rilanciare. Basterebbe copiare i francesi… dicono in molti. Alfredo mi ripeteva con la sua parlata dolce e rassicurante che sarebbe stato sufficiente tornare a fare quello che gli italiani hanno sempre fatto, perché per anni abbiamo insegnato al mondo. Al Tour c’è un villaggio ospitalità che accoglie per davvero gli sportivi. Da noi è pieno di barriere, dove è vietato l’accesso a tutti, anche ai corridori. Al Tour i motorhome delle squadre sono sempre nelle vicinanze del foglio firma e del villaggio ospitalità, in modo da rendere visibili e raggiungibili i corridori agli appassionati. Al Giro hanno pensato bene di nasconderli, di porli anche a chilometri di distanza, in piazzali lontani dove i motorhome possono essere parcheggiati molto più facilmente, facendo forse felici gli autisti e un po’ meno i tifosi. Basterebbe tornare a parlare di ciclismo, ma facciamo sempre più fatica, anche dopo lo strepitoso successo francese di Vincenzo Nibali. Cinque giorni cinque sono passati dalla magnifica Gazzetta gialla di «Roi Nibali» al Pantani ucciso, che ci ha fatto ripiombare nel più tetro sconforto. Non ne capisco il senso e la logica. Va bene la notizia, ma una settimana ad inzuppare il pane in una vicenda che è solo agli inizi e non sappiamo nemmeno se potrà avere un nuovo inizio mi sembra ragionevolmente eccessivo e, per quanto mi riguarda, anche di cattivo gusto: sia per Nibali, sia per lo stesso Marco.
Spesso mi sento frastornato, perso e incredulo davanti a tanto autolesionismo. Fatico a pensare positivo e frugo nella mia memoria per andare a ricercare quelle parole antiche dal suono dolce e suadente di Alfredo che, da buon padre, ti rassicurava dicendoti che il ciclismo è lo sport più bello del mondo e che nulla potrà farlo morire. Dopo aver perso Alfredo, oggi non ne sono più così sicuro.
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