Penso di avere avuto nella mia vita di giornalista sportivo una fortuna enorme, e variegata. Ho incocciato nel pieno delle mie forze e delle mie voglie il periodo più bello dello sport italiano e diciamo magari dell’Italia tutta, i davvero favolosi anni sessanta. Ho goduto di una onestà piena, chiara anche se dura, nel rapporto con i tre di gran lunga più importanti giornali della mia vita, cioè Tuttosport, La Stampa e Famiglia Cristiana: nel senso che mi è sempre stato chiesto molto prospettandomi il giusto e tenendomi informato quando il giusto poteva anche essere poco.
Sono arrivato al ciclismo nel 1959 partendo dal Giro d’Italia (primo di altri ventisette), senza gavetta spesso slombante per sempre, sono arrivato alla direzione di un quotidiano sportivo senza avere scritto una cronaca che è una di un match di calcio importante, sono arrivato al calcio come inviato davvero speciale, nel senso di disancorato da discorsi bavosi su tattiche e tecniche. Ho potuto seguire ventiquattro edizioni dei Giochi Olimpici, come nessun altro al mondo, scegliendomi sport e personaggi. Ho coperto le sfide mondiali di atletica come di nuoto, di ping pong come di automobilismo, di sci come di pugilato, di ginnastica come di bocce.
Sono andato in Cina, a indagare lo sport cinese, nel 1966, quando quell’immenso paese non esisteva per il mondo olimpico e per la stessa diplomazia italiana. Ho coperto da giornalista sportivo il lancio di Apollo11 sulla luna nel 1969 col pretesto che si trattava di un possibile record mondiale di salto in alto. Come dico ogni tanto ai miei otto nipotini che ancora non hanno deciso per la mia interdizione con eventuale internamento, ho scritto di ogni sport fuorché del polo e sono andato - spesato! - in ogni posto del mondo fuorché in quel polo mitico che è l’Antartide.
A loro come a tutti dico che ho vinto la lotteria, e in occasione di più estrazioni, però comprando sempre tanti biglietti con il lavoro duro e onesto, e spesso davvero tremendo, cominciato nel 1953, a neanche diciotto anni. Ho detto che altri non vincono mai però non comprano mai i biglietti, e sono capaci soltanto di lamentarsi. E ho pure detto che ci sono quelli che magari hanno comprato più biglietti di me ma non hanno vinto nulla, e io li rispetto e sin dove posso li aiuto.
Dopo questa esposizione/confessione fra la pubblicità personale e il vaniloquio, cerco di spiegare il perché di essa: mi ha invitato, un gruppo di amici che con il loro lavoro sono diventati tutti assai più ricchi di me, annoiandosi però come ghiri, a dire quale è stato il mio “servizio” giornalistico di maggiore soddisfazione. Ho detto ciclismo e soprattutto Tour de France.
Sul perché del ciclismo credo di avere scritto, su questa stessa pubblicazione, almeno un centinaio di volte, con tante righe esplicative. Il ciclismo - ripeto, riprendo, riassumo - è poesia della fatica ma anche della semplicità, è romanzo quando l’altro sport è novella, è divina e umana commedia quando quasi ogni altro sport è sonetto, o soltanto gioco. È natura e uomo che si compenetrano, si patiscono, si offendono, si amano. E io ogni anno aspetto il grande ciclismo come i vichinghi aspettavano il ritorno dei giorni del sole. Chi sa, può, vuole capire, a questo punto ha capito tutto. E peggio per gli altri.
Perché - e “vincendo” di gran lunga anche sul Giro d’Italia - il Tour de France? Oh, non per la soggezione che noi italiani abbiamo ancora nei riguardi dei francesi, un po’ logica, un po’ figlia del culto nostro per il loro presunto superiore libertinaggio. Place Pigalle intriga più di piazza San Babila, ma si pecca bene qui come là. Io ho una ragione molto ma molto giornalistica.
Dunque: secondo me in tutto il mondo degli eventi sportivi non esiste più, salvo che per un caso, una manifestazione importante, dunque da lettori sicuri, in cui un giornalista rampante, voglioso, curioso, insomma un giornalista vero che voglia fare bene il suo mestiere, non sia bloccato dai riti comuni, livellato dalla tecnologia ai pigri, agli indifferenti, ai routinieri, ai vecchi dinosauri. La conferenza-stampa, tutti insieme là in quel momento lì, quando non la teleconferenza, la chat, il collegamento skipe. Olimpiade e Giro d’Italia, Mondiali di calcio e d’atletica, Formula 1 e match di boxe, tutto organizzato, recintato, appiattito, spalmato su troppi, così che nessuno ne ha per sfamare i suoi lettori.
Al Tour sarebbe lo stesso, però soltanto al Tour - a parte il fatto che si possono persino seguire in auto i corridori senza essere sbattuti costantemente avanti - un giornalista che sia sempre boy-scout, che sappia e applichi i trucchi da giovane marmotta, che abbia voglia di andare, vedere, raccontare, riesce a evidenziarsi, e grazie agli argomenti che sicuramente raccoglie non ha bisogno di essere Hemingway per farsi leggere, come se invece sta in tribuna inchiodato a vedere la stessa partita di tutti gli altri.
O forse sto semplicemente sognando un Tour che fu mio e che non c’è più. Non voglio saperlo.
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