Possibile che lo sport che sta occupando con eventi e personaggi davvero tutto il mondo infligga ai suoi tifosi, e specialmente a quelli più storici e caldi, una punizione così perfida come un mese abbondante senza grandi gare? Parliamo del ciclismo, siamo appena usciti dal vuoto quasi pneumatico fra la fine del Tour, 21 luglio, e l’inizio della Vuelta, 24 agosto. Parliamo soprattutto del ciclismo italiano, che ha vissuto un Tour de France davvero disastroso, un solo palliduccio successo di tappa (Trentin), il miglior piazzato in classifica generale Davide Malacarne quarantanovesimo a 1.44’50” da Froome, e tutti a fare finta che il terzo posto di Moreno Moser all’Alpe d’Huez sia stato grande cosa, quando si è trattato di una fuga non riuscita (il ragazzo si era trovato primo e solo senza neanche fare troppa fatica) per sbaglio di valutazione delle forze. Un Tour senza nostri velocisti davvero in palla, senza tracce di Cunego che pure ha vinto un Giro d’Italia e non nel millennio scorso, un Tour seguito bene dalla Rai che però troppo spesso si è trovata a fare archeologia o a friggere aria.
Finito il Tour, che fra l’altro in Italia è stato seguito soltanto in redazione, nel senso di davanti alla televisione, anche da grossi giornali, rinunciando cioè all’inviato speciale, siamo rimasti senza ciclismo, tutti intorno all’osso Nibali impegnato a sfamarci di promesse per la Vuelta, il Mondiale su strade italiane, soprattutto il prossimo anno. Così tanto importante per il nostro ciclismo, questo Nibali, che ci si è dimenticati di chiedergli del Kazakistan, lui che è sotto ricco contratto con la Astana, la squadra col nome e i soldi della capitale dello stato dittatoriale al centro della nota diatriba politica per una sciagurata espulsione. La televisione intanto impazzava sui raduni delle squadre di calcio, offrendo ore e ore a servizi poveri di sostanza e ricchi solo di fumo. Senza Olimpiade, senza Mondiali di calcio, con i Mondiali di atletica in agosto a Mosca già slombati dalla scoperta del doping nello sprint di Usa e Giamaica, con vicini alla fine del Tour appena i Mondiali di nuoto, e però con una Pellegrini dimessa (c’era spazio, eccome), si è trattato di una sorta di digiuno, specie per chi considera gli imperversanti sport dei motori come asettiche faccende fra macchine ben più che fra uomini.
Quella che anche su queste colonne, e in questa rubrica, fu tempo fa una nostra proposta magari soprattutto matta e chissà se anche divertente per portare il ciclismo dell’estate nelle località balneari, ci pare diventi adesso una quasi urgenza, da affrontare con serietà. Tenere fermo praticamente tutto il ciclismo italiano nei mesi del sole è davvero uno sciupìo. Non offrire agli sponsor, che già sono pochi e stentarelli, una ribalta speciale può diventare criminoso. Non dare ai nostri pedalatori occasioni di pedalare, dunque occasioni di lavoro. è sicuramente folle.
Non dovrebbe essere troppo difficile trovare i soldi per organizzare una serie di circuiti, che non stravolgano la situazione del traffico ma al massimo occupino per un poco qualche lungomare, con una classifica finale generale. Una specie di trofeo dell’estate, 2014 ormai: se ha avuto successo il beach volley ci sono possibilità per tutti, davvero. Magari, di contorno alla gara con i corridori veri, una serie di confronti, anche sulla cyclette, tra i villeggianti e perché no i professionistti, con premi divertenti, in tono con la stagione delle vacanze, delle ferie. Rischiando, se non la scoperta di qualche talento, perlomeno la nascita di qualcosa di simile all’emulazione.
Una faccenda da strapaese? Sì, ma meglio, molto meglio che niente. La cosa giusta probabilmente necessaria per un ciclismo che c’era una volta e adesso non c’è più, e che non può nutrirsi di ricordi. Siamo diventati piccoli, forse soltanto perché è cresciuto il mondo intorno a noi: vogliamo dire che il ciclismo di Italia, Francia e Belgio, per noi un Nibali e una ipotesi su un neoMoser potevano bastare. Adesso le nostre misure devono essere prese nei riguardi di tutto il resto del mondo, e già ci va bene che per ora non ci sono gli arrivi in massa dei cinesi, degli indiani, degli africani, intanto che i colombiani rappresentano sempre meglio l’America Latina, e finiranno per trainarla.
Gli stessi nostri corridori potrebbero e dovrebbero prestarsi al gioco. Che è poi il gioco della sopravvivenza. Al mare, ai monti, ai laghi: raccontando, raccontandosi. E pedalando, ovvio. Hanno del fascino, il Giro degli italianuzzi richiama ancora la nostra gente. Un tempo avevamo tanto ciclismo trionfale, i bambini facevano gare a ciclotappo sulla spiaggia, i pedalatori erano degli dei o quasi. Adesso le cose sono cambiate, uno sport divistico, ricchissimo, vetrinistico, telegenico, estremo in maniera magari fasulla ma di sicura presa (assai più estremo certo ciclismo, ma ormai ci ha abituati tutti troppo bene..) propone personaggi di cartapesta molto ma molto bene dorata. Piccole beghe di calciatori diventano casi internazionali. Mostruoso di mezzi (anche chimici) e senza scrupoli, questo sport si mangia cervelli e cuori.
Il ciclismo non ha i mezzi per combattere contro la spettacolarizzazione magari fasulla ma sempre spinta di tanto altro sport, comodo per le telecamere, senza problemi di spostamenti a largo raggio, uno sport da studio televisivo, ecco. Il ciclismo ha ancora la poesia, arma umile, ultima. Da recitare rivamare, appunto.
Mario Cipollini è un acuto osservatore delle cose del ciclismo e ha postato su Facebook una riflessione interessante, scaturita dall'osservazione della foto che vedete, scattata pochi metri dopo il traguardo della Gand-Wevelgem di domenica scorsa. Ci sembra giusto poroporla all'attenzione...
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