Gatti & Misfatti
Il tradimento della Gazzetta

di Cristiano Gatti

Come sta messo il ciclismo, adesso che è co­minciata una nuova annata? Sta messo così: c’è una mezza dozzina di movimenti ispiratissimi e virtuosissimi che si dicono tutti pronti a sbaraccare, rifacendolo di sana pianta. Ormai ha più volontari al capezzale il ciclismo che la foca monaca. Il panda rode d’invidia. La cosa più tragicomica: tra i gruppi investiti dalla nuova missione salvifica c’è persino l’Uci, che convoca gli stati generali per uscire dall’unico stato in cui lei stesso ci ha ficcati, lo stato comatoso. Ma certo, bisogna risistemare il pollaio, affidiamolo alle capaci sgrinfie della faina…

Sono proprio curioso di vedere dove tutto questo fermento di rivoluzioni e di riforme ci porterà. Per esperienza, so che più missionari si mettono all’opera, più la missione è confusa e pasticciata. Ma non bisogna eccedere con il pessimismo: ciascuno ha di­ritto di giocarsi le sue carte, conviene vedere a che gioco stanno giocando. Con una piccola postilla che riguarda tutti quanti: non resta molto tempo, il paziente è in condizioni critiche, rischiamo di perderlo.

In attesa del grande cambiamento, non posso ta­cere l’ultima vergogna perpetrata ai danni del povero degente. Nei giorni di Na­tale, ho fatto il mio giro in libreria, alla ricerca di regali. Ad un certo punto mi sono imbattuto in un’idea molto curiosa, ideale per un paio di amici miei: il volume gigante con tutte le prime pagine storiche della Gazzetta. Bel­lo, mi sono detto: li regalo a quei due. E due ne ho presi. Mentre ero in coda alla cas­sa, però, mi sono soffermato a guardare la copertina, che per le specifiche dimensioni definirei copertona. Nel di­segno stilizzato, rappresentati tutti gli sport più popolari, e anche quelli meno popolari, tipo i tuffi. Tutti meno uno: il ciclismo. Ho guardato e riguardato, credendo di vederci poco, ma purtroppo la colpa non era mia: la Gaz­zetta, la madre naturale del ciclismo italiano, ha escluso e rinnegato la sua creatura. Un delitto orrendo, che grida vendetta. Nel mio piccolo, ho camminato a ri­troso e sono andato a rimettere i due libri sullo scaffale d’origine, cambiando idea sui regali. Purtroppo, ho cambiato un po’ idea anche sulla Gazzetta.
Ci sono segni dei tem­pi che valgono so­stan­za. Questo, per me, lo è in modo atrocemente efficace. Persino alle fermate dei metrò c’erano enormi tabelloni pubblicitari che lanciavano l’iniziativa editoriale, con la copertona senza ciclismo bene in evidenza. Io non la voglio fare tanto lun­ga, perché non sono interessato a guerre contro il giornale rosa: lì, tra parentesi, ho tanti amici e colleghi che stimo, come persone e come giornalisti. Non è dunque per la solita, idiotissima questione di invidie e di concorrenza che sollevo la questione. Lo faccio perché si tratta proprio della Gazzetta. Da tutti mi sarei aspettato uno sfregio del genere, mai dalla “Gazzetta”: proprio lei, che il ciclismo l’ha lanciato, l’ha allevato, l’ha reso grande, e ultimamente sta pure cercando di rilanciarlo, ispirando il famoso manifesto dei cinque giornali autorevoli d’Euro­pa. Amici rosa, proprio un bell’inizio. Prima di lanciare nuovi manifesti, io avrei cam­biato quelli appesi in metrò. Così, tanto per essere credibili, tanto per dimostrare nei fatti che davvero tenete ancora molto al ciclismo.

Sinceramente mi sono chiesto più volte le ragioni dello scandalo. Ho trovato solo due possibili cause. La prima: la Gazzetta considera il ciclismo talmente impresentabile da temere che la sua presenza in copertina possa de­turpare l’iniziativa editoriale. In questo caso, mi chiedo come si possa ancora credere nel futuro del ciclismo, se il suo giornale organizzatore per primo se ne vergogna. Non volendo accettare questa spiegazione, ho preferito cercarmene un’altra, la se­conda: si tratta semplicemente di una svista. Sul mo­mento ci ho sperato. Poi pe­rò mi ha assalito una mostruosa malinconia: se persino la Gaz­zetta si dimentica bellamente del ciclismo, significa davvero che la crisi è spaventosa. Secondo me, dimenticarsi è molto peggio che vergognarsi.
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