Rapporti&Relazioni
Che me ne faccio di quel ciclismo?

di Gian Paolo Ormezzano

Adesso che è sparito il nostro ciclismo, nostro di noi vecchi, quello contadino, quello francofono, quello senza caschi, quello delle maglie che avevano i colori della natura e non di qualche sperimentazione chimica, quello dei pantaloncini sempre neri, quello delle borracce di alluminio, guai buttarle via, quello de­gli alberghi dimessi e tarlati per gior­nalisti come per i corridori, quello delle tappe che ripartivano lì dove erano arrivate e la sera si poteva anche incontrare qualche concorrente insonne e parlare con lui di donne lontane, quello dove chi vinceva la tappa magari non si faceva vistosamente il segno della croce però alla caviglia portava la cordicella santa che ad ogni inizio di stagione il frate amico gli dava dopo averla benedetta (gliene dava magari due metri, la polvere e l’acqua sbrindellavano la canapa), quello della gente che aspettando il Giro non sapeva nulla di chi sa­rebbe passato per primo e si preparava a una teorica ma impossibile identificazione leggendo e rileggendo l’elenco dei corridori, puntualmente pubblicato ogni giorno dai tre e ad un certo punto anche quattro quotidiani sportivi, quello dei due celebri e perfidi autori di una trasmissione della Rai i quali, approfittando dell’amplificatore montato sulla loro auto, quando passavano nei paeselli se pioveva forte dicevano alla gente subito obbediente di chiudere gli ombrelli, la cui vista avrebbe potuto con­fondere i pedalatori, adesso che facciamo?

Anzi, la domanda è più articolata, se volete più arzigogolata, anche sintatticamente: di questo ciclismo adesso che ne facciamo? Lo conserviamo nel­la nostra formalina personale, o lo spalmiamo ancora in giro, regalandolo anzi infliggendolo a quelli, sempre più pochi, che ci fanno il pia­cere di fingere di credere che sia davvero esistito? Ho sette nipoti, soltanto il più piccino, anni due, non mi guarda come un gran bu­giardo allorché racconto che mai lo stadio grande del calcio si era riempito così tanto di gente come quel giorno, quando la radio ri­cordò che stava arrivando a Torino il Tour de France e che sulle strade italiane anzi piemontesi dunque vicine al traguardo tra i fuggitivi c’era il “Cit”, il piccolino in dialetto, l’enfant du pays, insomma Nino Defilippis, il quale vinse la volata soffiato avanti dalla gente insardinata sulle gradinate come neanche per il derby (non erano stati stampati abbastanza biglietti, alla fine si erano aperti i cancelli che sennò sarebbero stati divelti, per uno spettacolo di pochi secondi).

Ma neanche i giornalisti giovani o non vecchi mi credono quando dico che nella Parigi-Roubaix stavamo con l’auto proprio in mezzo ai corridori, anche nei tratti col pavé, e infatti l’anno in cui vinse, ed era felice non solo di nome, Gimondi cercò dopo l’arrivo, finito il giro del ve­lodromo con il mazzo di fiori, il no­stro autista per sgridarlo, perché un rallentamento dell’auto lo aveva portato quasi a schiacciarsi addosso a noi: e ricordo eccome il suo viso pieno di furia, come stampato contro il lunotto posteriore. Neanche mio figlio, che fa il giornalista dei calciatori che chattano avaramente sul lucore algido del computer e per il resto sono ectoplasmi che vivono nei cieli altissimi della loro supericchezza, mi cre­de se gli dico che la notte prima di concludere il suo grande Tour de France proprio Gimondi fece con me le ore piccole per raccontarsi, e alla fine fu lui a spedire a letto me, non io lui.

L’altro giorno un ventenne mi ha chiesto chi era Merckx, una di­ciottenne chi era Coppi. Cosa me ne faccio del mio ciclismo? Le teche Rai non mi danno più Totò al Giro d’Italia, serviva. Cosa me ne faccio di tutti gli accrediti delle corse che ho conservato? Molti sono di cartone, neanche di plastica, e sta provvedendo il tempo a sbriciolarmeli. Poco tempo fa una voce al telefono di uno che aveva sbagliato nu­mero, leggendo sul suo taccuino quello di una riga sopra quella col mio nome, mi chiese se ero il Taldeitali, dissi di no ma intanto mi resi conto che quella voce mi era nota, chiesi con chi stavo parlando e anche lui capì qualcosa di me, insomma era Fiorenzo Magni, e da vecchi suonati per un bel po’ di secondi non emettemmo che fonemi di stupore.

Che posso fare del mio ciclismo se non stenderlo su questa pagina che mi fa l’onore di prendermi sul serio? Ho persino la canzone giusta per cantarmelo dentro, dice que reste-t-il de nos amours? di Charles Trenet, uno che cantava la sera nelle città e nei paesi dove era arrivato il Tour che non si spostava per il via da un’altra città. Quando dico ai miei nipoti che i cantanti celebri facevano carte false, in Francia ma anche in Italia, per prendere parte allo spettacolo in piazza, mi guardano come per dirmi che non sono così stupidi e creduloni come io penso, sono semplicemente buoni e comprensivi, e mi stanno ad ascoltare sperando che io, che fingo di avere buona memoria, non mi dimentichi domani di fare, come promesso, la ricarica ai loro telefonini.
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