La domanda è questa, ed è più che una domanda: possibile che i ciclisti debbano continuare a gareggiare vestiti in maniera buffa, che esalta (insomma…) anche il loro procedere goffo giù di bici, per via delle scarpette che li obbligano a camminare come sulle uova? Guardiamo insieme un gruppo di ciclisti, al via di una tappa del Giro d’Italia come della Maratona delle Dolomiti come della sfida amatorialissima da campanile a campanile. Calzoncini niente “ini” e molto stretti, un po’ da paggio un po’ da topo d’albergo; colori minerali, arroganti specialmente sulle magliette; tessuti assai acrilici, da crepitio con scintille se strofinati in una stanza buia; berrettini da scemo del villaggio; ridicoli persino i guanti con mezzo dito. L’insieme è desolante, scoraggiante, ammosciante. Farebbe ridere, vestito così, anche Brad Pitt, impossibilitato a suscitare qualche altra reazione anche dentro la donna più brutta e assatanata del mondo. George Clooney sembrerebbe un clown di un povero circolo di periferia. Passando al ciclismo femminile, anche Angelina Jolie, se vestita così, avrebbe dei problemi per continuare ad apparire sexy o quanto meno appetibile.
Ne abbiamo già detto, su questa rubrica, di passaggio o se preferite “di striscio”, come si esprimono oggi i giovani. Ma stavolta vogliamo rischiare affrontando, insieme con il tema, l’ira probabilissima dei ciclofili, affezionati magari a queste divise. E prima di andare avanti ricordiamo uno splendido quadretto dipinto da Carlin, cioè Carlo Bergoglio, cioè un grande giornalista-pittore reso famoso soprattutto dal ciclismo (Guerin Sportivo e Tuttosport). È raffigurata da un artista appassionato e innamorato dello sport in questione la partenza di una Milano-Torino del primo dopoguerra, i ciclisti indossano divise cromaticamente interessanti, cattivanti, però le magliette sono in tinta unita, al massimo bicolori (bianco e celeste, ad esempio: l’accostamento vi dice qualcosa?). C’è il felice sospetto che siano tutte di lana, o di un misto lana-cotone. L’insieme è dolce, tenero, e intanto non troppo arcadico, nel senso che si annusa comunque la battaglia imminente. Le poche scritte degli sponsor, quasi tutti industriali della bicicletta, si vedono assai bene. Anche dal punto di vista della resa cromatica e non solo, il risultato è ottimo. Accostata ad una omologa immagine di oggi, la partenza di quella Milano-Torino è insieme più forte, più tenera, più poetica, più pratica.
Già, oggi. Colorati spesso anche i pantaloncini, e se neri coperti di scritte cromaticamente forti. Le magliette poi sono tutte arlecchinesche: di base e di scritte sovrapposte ai colori di fondo. Un patchwork spesso ridicolo, sempre comico. E tale da conseguire, ai fini pubblicitari, l’effetto opposto a quello voluto dagli sponsor: non si legge bene niente, non si capisce cosa il ciclista reclamizza.
Si dirà che ci sono tanti sponsor, perché ci vogliono tanti soldi e le spese devono essere suddivise, e dunque le scritte debbono risaltare in spazi ridotti, fare a pugni fra di loro per apparire al meglio, al massimo consentito. Vero, ma pensiamo che allo sponsor, non essendo lui un cretino, una offerta di spazi dove le scritte risaltino meglio, e in maniera non caotica, arrogante e intanto fredda, dovrebbe interessarli. Scritte brevi, secche, in un colore che risalti sul colore unito di base: e dunque maglietta monocromatica di suo, non policromatica e messa insieme con due, tre, quattro tinte diverse di un tessuto fra l’altro antipaticamente sintetico.
L’arlecchinismo attuale è stato comandato dalla televisione a colori incipiente, in maniera repente e idiota. Si è pensato di fare colpo facilmente. E allora avanti con i colori forti e le scritte insistenti, tante poi per via della raccolta di sponsor tutti piccoli, e dunque da collezionare in grande numero onde ottenere da tutti insieme un contributo valido.
Davvero sembra che qualche demonietto burlone si sia divertito a rendere goffo esteticamente il ciclismo pedalante, quasi per sottolineare, evidenziare, ridicolizzare il suo presunto anacronismo rispetto a tempi comodi e motorizzati, rispetto a tanto sport che fa sudare poco e fa guadagnare molto. Tornare indietro significa ammettere di essere stati presi in giro, sia pure senza cattiveria esplicita, voluta? Pazienza, specie per i cicloamatori contagiati dalla brutta moda.
Offriamo due diciamo controprove per far capire la situazione.
Si pensi a ciclisti che vanno dal capo dello stato, dal pontefice, in qualche consesso solenne. Altri sportivi possono tranquillamente andarci con la loro divisa da gara, che appare guerriera, affascinante. I ciclisti, se ci vanno vestiti da ciclisti, rischiano di far ridere.
Si pensi ad una donna, una ragazza: più facile che sia gentile, dolce, affettuosa con un atleta vestito da ciclista o con un atleta vestito da atleta? In altre parole, un maratoneta anche se disfatto dalla fatica è sexy, un ciclista anche se reduce da una discesa col vento in faccia è pagliaccesco. E non vogliamo neppure pensare ad una donna vestita da ciclista accanto anche soltanto ad uno Stefano Accorsi…
Siamo brutti e cattivi e impietosi e iconolastici e blasfemi? Un poco, lo ammettiamo, ma pensiamo che sia necessario. Altra controprova: pensiamo a Fausto Coppi e Gino Bartali in gara vestiti come i ciclisti di adesso. Siamo sicuri che ci piacerebbero? E che nessuno ci dica che le divise attuali sono intonate alla pratica, alle esigenze aerodinamiche oltre che pubblicitarie. Sicuramente esiste il modo di progettare una bella maglia a tinta unita, tinta anche forte per la televisione, e di sistemarci sopra ogni scritta senza passare all’effetto-Arlecchino. Sicuramente esiste il modo di vestire il ciclista più da atleta e meno da manichino,da clown per un circo sadico e irriverente e becero della fatica.
E adesso aspettiamo insulti. Coloratissimi.
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