Rapporti&Relazioni
La strada giusta

di Gian Paolo Ormezzano

Il Giro d’Italia annuncia che nel 2012 prenderà il via dalla Danimarca, per internazionalizzarsi in maniera nuova, per fare Europa, non solo per fare soldi e curiosità. Intanto Gianni Petrucci presidente del Coni dice che il ciclismo ha perso credibilità, per via del doping.
L’inverno del ciclismo è stato pie­no di corse in tutto il mondo. In Italia la Milano-Sanremo ha avuto spazio sui giornali più canonici e purtroppo seguiti soltanto il giorno della corsa e il giorno dopo. In Francia il mensile So foot, titolo all’inglese, così football (in Francia si dice tu es so belle ad una ragazza, per complimentarsi con lei usan­do anche la lingua d’Al­bio­ne), un giornale dove si dissacrano con intelligenza e cultura il gioco del calcio e i suoi personaggi so­ven­te fasulli, dove si parla dei suoi scandali conosciuti o volutamente ignorati, dove c’è tanto spazio, ov­vio, per le cosacce italiane, annuncia la prossima uscita di Pèdale, pubblicazione che si ripromette di parlare del ciclismo dei suoi risvolti, delle sue potenzialità come produzione di humour, insomma di replicare, in bici, So foot. Parla di uscita annuale, ma dice: anche noi di So foot abbiamo cominciato co­me numero annuale, ora siamo un mensile…”.

In Italia l’annuncio di una simile iniziativa sarebbe immediatamente accompagnato dal suono della si­rena di un’ambulanza, per portare all’ospedale i folli progettatori di un così folle crimine editoriale.
Chi ha ragione? Chi sbaglia? Sia­mo tutti fessi, noi del ciclismo? So­no tutti scemi i francesi che continuano a reputarlo grande sport, de­gnissimo anche di attenzioni che hanno persino un coté letterario, anche se nel loro Tour non toccano più biglia da oltre un quarto di secolo, con Parigi regolarmente occupata da maglie gialle straniere? Il doping è la prova dell’umanità del ciclismo, della sua dabbenaggine onesta nel cercare il miracolo e nel farsi beccare, o della criminosa sua ricerca di superumanità con espedienti chimici? Il do­ping è davvero solo del ciclismo e di pochi sport altrettanto idioti?
Sono domande che ci poniamo spesso, approfittando magari della possibilità di variarle un poco, of­ferta da novità di ogni tipo, la Da­nimarca e Petrucci, la Sanremo e So foot. Ma l’itera­zione di queste domande deve preoccupare: se so­no sempre le stesse e intanto non vince la noia, va a finire che perdiamo tutti. Anche Petrucci, che fra l’altro è il capo di tutti noi.

dddddddddddd

Su queste colonne Gian Paolo Porreca ha ricordato, nella sua rubrica Scrip­ta manent, una Parigi-Roubaix che “facemmo” insieme, due Gian Paoli giornalisti ciclofili (lui è anche dottore eccome nel sen­so di cardiologo, io non ho uno straccio di laurea, neanche quella breve o brevissima) nello stesso giorno e nella stessa vettura per la stessa corsa non è mica poco, statisticamente parlando. Non ricordo se si trattava dell’edizione in cui il pavé era stato quasi tutto pittato da un artista algerino, un geniale vivacissimo graffitaro dell’asfalto, del suolo. Mi sembra, invece, di poter far datare più o meno da quel tempo (facciamo fine anni ottanta) l’inizio della copertura delle strade del Tour de France, specialmente quelle delle salite, con scritte quasi indelebili, non mai enfatiche per il corridore amato o cattive per il suo rivale, semplicemente dei nomi, dei vas-y, letteralmente “vacci”, l’equivalente del nostro “forza” (allez, “andate”, se ci si riferisce a più persone, a un gruppo, una squadra, addirittura un’etnia, un popolo). Il Tour, ricordiamo, dove un corridore dei tempi eroici diede degli assassini agli organizzatori, scrivendo sulla polvere di una strada infame di montagna, e finì nella storia anziché al rogo.

Ritrovo quelle scritte nel mio sempre più frequente andare in auto per la Francia, che amo sempre di più intanto che reggo sempre di meno i francesi, e mi fanno tenerezza, rallento per leggerle bene, rischio l’incidente rallentando di colpo, invertendo la direzione per andare a rivedere bene quello che mi sembra che mi sia sfuggito. So­no scritte in genere assai civili, e spesso i tanti nomi di corridori sono intercalati da un W le vélo, che fa bene agli occhi ed al cuore.
Esiste una felicissima teletrasmissione, Striscia la notizia, che si oc­cupa ormai stabilmente anche di, come dire?, cartellonistica e striscionistica degli stadi del calcio, mo­strando le scritte ironiche, in­telligenti (e dunque rarissime: co­munque ce ne sono) e purtroppo anche quelle - moltissime - che so­no becere, sconce, per non dire oscene. Un’idea per il ciclismo: in­dire una sorta di concorso per le scritte, in Italia specialmente quelle sui cartelli esposti al passaggio dei corridori, che in genere sono ottime ed abbondanti. In premio magari un giorno con il ciclista citato, o al seguito di una corsa. Anzi, più premi, e però mai soldi ma opere di bene verso i tifosi cari. È tardi per questo Giro d’Ita­lia 2011, in tempo, si è larghissimamente in tempo per quello del 2012. Edizione per la quale pensiamo anche ad un contropremio infamante o almeno deridente per il primo giornalista che, considerato il paese di partenza, la Da­ni­mar­ca, scriverà di Giro con il dubbio amletico, o qualcosa di simile. Così come se il Giro partisse dalla Scozia penseremmo ad una punizione esemplare per chi, dopo un giorno di corsa bella ed uno di corsa brutta, o meglio (cioè peggio) ancora un giorno sì ed un giorno no per un pedalatore, scrivesse di doccia scozzese.

Vedete dove si arriva partendo dalla Parigi-Rou­baix, anzi partendo dal pavé? Magari non si arriva lontano, in senso di anticipazione/frequentazione del futuribile, ma si arriva vicino al sorriso. Si arriva al cuore ed al cervello passando per gli occhi, una vecchia strada giusta.

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