Il mondo del ciclismo ha una sua editoria, periodica e no, piuttosto fiorente, e le celebrazioni dei cinquant’anni dalla morte di Fausto Coppi e dei dieci dalla morte di Gino Bartali hanno dato un incremento particolare a pubblicazione di libri e simili. Il ciclismo ha molti musei, e si può dire che iconograficamente stia assai meglio del calcio, che vive essenzialmente grazie a Firenze, e intesa come Coverciano più che come Fiorentina, anche se la società viola è assai più efficiente di altre nel commemorarsi. Il ciclismo però ha poco spazio ormai non solo nei quotidiani sportivi che non siano La Gazzetta dello Sport, istituzionalmente e diremmo anche canonicamente (il rito del suo Giro d’Italia, un rito lungo nel tempo anche per prodromi ed echi) votata ad esso, pur nel limite di recenti profonde trasformazioni editoriali, ma anche e soprattutto sulle pagine sportive dei quotidiani politici.
Qui corse anche di nome, che una volta smuovevano un inviato speciale e ottenevano titoli a più colonne, sono spesso ridotte ad una breve, come vengono chiamate quelle notizie su una colonna e al massimo di dieci righe, e neanche sempre provviste almeno di un titolino su una riga, soltanto un pallino prima del testo - una separazione dal resto, più che un richiamo - e l’irregimentazione in una rubrica di notizie similmente comprese. Spiace farlo notare a chi eventualmente fosse sin qui riuscito a ignorare la cosa, ma quando un quotidiano politico importante dà grande spazio al ciclismo, magari fuori dalle sue pagine dedicate allo sport, è per notizie di doping. Mentre quando lo spazio viene dato nelle pagine ad hoc, quelle destinate ad eventi agonistici, c’è una ricerca non tanto del gossip (ma forse soltanto perché il gossip qui è scarso, il ciclista non ha sex appeal, specie adesso che Mario Cipollini non corre più), quanto del particolare curioso, a cui agganciare se del caso tutto l’articolo. Tanto per fare qualche esempio: le vicende cliniche di Armstrong, la Montecarlo di serie B, quanto a capitali e interessi trasferiti là, di alcuni pedalatori, o i relativamente onerosi guai col fisco di un ciclista appena appena famoso e appena appena ricco, la curiosità geogastroenotursitca legata ad una certa corsa. Poco sport nudo e crudo, tanto contorno altamente di giornata, episodico, contingente, e per fortuna non (non ancora) pruriginoso: quasi che il ciclofilo per la sua patetica amorosa tenacia di frequentatore dello sport beneamato sia ritenuto persona troppo semplice, o troppo poco cretina, o ancora abbastanza intelligente per abboccare a certi ami.
Va da sé che, perdendo lettori sui giornali quotidiani, si perdano scrittori: perché è vero che lo scrittore “fa” il lettore, ma è anche vero il contrario. Se cioè ci sono tanti potenziali lettori in attesa appunto di leggere, non solo lo scrittore (o anche soltanto lo scrivente, in questo caso il giornalista) è sollecitato a dare il meglio, ma scrittori a priori estranei al mondo della bicicletta si sentono da esso attratti.
(Fra parentesi: un volta si scriveva “il mondo delle due ruote” e ciò bastava per la connotazione del pianeta-ciclismo, adesso è meglio dire “il mondo della bicicletta”, perché “il mondo delle due ruote” è spesso quello del motociclismo di Valentino Rossi e dintorni e contorni).
Si dice che tutto deriva, dipende, viene deciso dalla televisione, nonché dalla natura stessa del ciclismo, che non sollecita la ricerca di effetti speciali, l’introduzione di teletecnologie spinte e attraenti, cattivanti. Il ralenti di una pedalata è in effetti noiosissimo. Funziona spettacolarmente bene quello della volata, anche con l’effetto-rischio di caduta, ma è scena che si ripete una volta sola per competizione: e poi non sempre la volata c’è, e in caso di arrivo solitario non si può troppo contare sulle doti espressive, sulla gestualità speciale del vincitore trasformabile dal ralenti in ipotetico attore, in eventuale mimo.
Forse ci vorrebbe - già detto e scritto anche qui, ma pare che repetita juvant, o meglio che considerando tutto repetere necesse est - un Hemingway che narrasse la corsa e i suoi dintorni e contorni, il panorama e l’umanità che lo popola. Non inventando, come facevano i celebri cantori d’antan, così appassionati a creare incantamenti che trascuravano spesso grammatica e sintassi, ma interpretando. Attualmente un solo giornale italiano si permette il lusso di mandare ad una corsa, quella sola, uno che narra di contorni e dintorni assortiti oltre che di vicende agonistiche: parliamo di la Repubblica, con Gianni Mura sul Tour de France. Un uomo solo al comando di un esperimento iterato ma non imitato, forse per carenza o scarsa voglia di sperimentatori validi. Personalmente non conosco rimedi, soluzioni immediate o a lungo termine. I giornali quotidiani sono quelli che sono, spesso quelli che ormai non sono. Se dico che ai ciclofili restano i libri, vengo sospettato di conflitto di interessi, perché ne scrivo anch’io. Cerco di salvare la capra e i cavoli segnalando un libro che non è di ciclismo, ma che il ciclismo si meriterebbe, scritto da opera di uno come Giorgio Cimbrico, giornalista ligure autore di La regina e i suoi amanti, ed. Absolutely Free, 170 pagine, 16 euro bene spesi alla luce dell’ascesa recente e spesso smodata dei prezzi librari. Un romanzo dell’atletica leggera persino più appassionante che appassionato (ci sono anche risvolti critici, e l’autore è tatuato ma non accecato dallo sport che ama), con i suoi eroi più celebri e anche quelli un po’ segreti, da Dorando Pietri a Usain Bolt, con tanta storia e tante storie, tanta cultura della geopolitica olimpica e non solo, dell’etnos, della tecnica, tanta somministrazione di dati ma con grazia affettuosa, amorosa, spesso poetica.
Perché ne parlo qui? Perché vorrei tanto che nel ciclismo uscisse, scritto da un magico Pincopallino, un libro così, che fa pensare e sospirare e ricordare e conoscere e valutare e cantare insieme. La materia prima non manca, anzi. Ma Cimbrico è uno che ama il rugby e non il calcio, e vuoi mettere il vantaggio culturale e dunque anche giornalistico che ha?
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