Gatti & Misfatti
Perché no a Bettini ct

di Cristiano Gatti

Mi spiace molto dirlo, mi spiace perché Paolo Bettini ha regalato tan­te giornate esaltanti al ciclismo italiano, e mi spiace ancora di più perché lo trovo umanamente simpatico. Ma nonostante il di­spiacere, devo dirlo senza mezzi termini: Bettini non può essere il nuovo ct dell’Italia.

Non è neppure escluso che al momento di mandare tuttoBICI nelle edicole la Federazione di Renato Di Rocco l’abbia già nominato. Fa lo stesso: il ragionamento non ha data di scadenza, come tutte le questioni di principio. Sopravvive alla cronaca. Lo confermo anche davanti ad una nomina, già an­nunciata o prossima all’annuncio: Bettini è un grande personaggio del ciclismo italiano, ma non può essere il ct della nazionale.

Spero sia ancora possibile esprimere un’opinione, per quanto scomoda e an­tipatica, senza scatenare ondate di sdegno conformista. Dire no a Bettini sembrerà a molti una bestemmia in chiesa. Ma non im­porta: sono da sempre per il giornalismo che cerca dolorosamente la verità, anche a costo di far male a persone care. Se co­minciassi a distinguere tra amici e non amici, per decidere che co­sa dire, mi sentirei un verme schi­foso. Lo so che tanti amici fa­ticano ad accettarlo, ma considero questa una regola ferrea del­la professione: sulle idee non si può transigere, e pazienza se questo è un Paese dove invece si parla solo male dei nemici e solo bene degli amici. Non me ne im­porta nulla, non ho la minima in­tenzione di adeguarmi. C’è qualcosa che conta di più dell’amicizia: è la ricerca della verità.

No, Bettini non può essere il ct azzurro. Il ct azzurro ideale ha un identikit ben preciso. Il suo bagaglio tecnico viene dopo, molto dopo: prima, in testa alla lista dei requisiti, ce ne sono altri più importanti. Non voglio nascondermi: an­ch’io, d’istinto, dopo la terribile scomparsa di Ballerini, quando mi sono ricomposto e ho cominciato a pensare il futuro azzurro - che proprio per la memoria dell’ultimo ct merita molte attenzioni - ho detto subito Bettini. Naturale. Sembra quasi un’ema­na­zione diretta delle precedente gestione. Prima come capitano, poi come consulente, Bettini era già un punto fisso dello staff az­zurro. Normale scrivere subito il suo nome, in cima alle preferenze. Anch’io, lo ripeto, l’ho fatto: non mi sembrava neppure vero, di trovarci subito sul tavolo la soluzione più giusta e più bella. Poi però ho superato l’istinto e ho cominciato a ragionare oggettivamente: è a quel punto che la situazione mi è apparsa chiarissima, lampante, indiscutibile. No, Bettini non può essere ct. Nono­stante le sue capacità, i suoi me­riti, la sua carica umana. No, non può lo stesso. E lo possiamo comprendere alzando un po’ la testa dalle banali questioni tecniche. C’è qualcosa che sta so­pra, che va oltre. Che non possiamo ignorare.

Le ragioni del mio no sono semplicissime. Il ct azzurro, per il ruolo che riveste, deve essere altamente rappresentativo dell’Italia. Forse la faccio troppo ideale, ma io la vedo così. Allora: con tutto il rispetto, Bet­ti­ni ha ancora aperto con il no­stro Stato un contenzioso di or­dine fiscale che pesa come un ma­cigno. Intendiamoci subito: spero che Bettini chiarisca definitivamente la sua posizione, faccio ancora il tifo per lui, ma la questione resta. È storia. Ad un certo punto, lui come altri ha deciso di stabilirsi a Monte Car­lo. Liberissimo. Padronissimo. Però delle libere scelte - dobbiamo imparare tutti ad accettarlo - bi­sogna rispondere sempre: quando convengono e quando comportano fastidiosi effetti collaterali. Su Paolo, adesso, pesano le conseguenze di quella scelta: ha preferito - per ragioni sue, che non voglio neppure conoscere - diventare monegasco. Ha dimostrato di non credere troppo nell’Italia, di non sentirsene ab­bastanza legato: lo ripeto, per ragioni sue e rispettabilissime, comunque inequivocabili. Con l’Italia ha addirittura aperto un difficile contenzioso legale. Det­ta più brutale, con l’Italia è in bega. Sono così al dunque: se con l’Italia è in bega, non può diventarne la sua bandiera sull’ammiraglia del ciclismo. C’è una pesante contraddizione di termini, non possiamo fingere di passare sopra a tutto questo.

L’unica cosa che chiedo è di evitare la solita reazione - questa sì - mol­to italiana, del genere “che sarà mai, cosa avrà fatto mai, non ha ucciso nessuno”. Lo so benissimo: Bettini non ha ucciso nessuno. Ma dei propri atti - liberi, in­discutibili - bisogna sempre rispondere. Per dire: io sono en­trato in pesante conflitto anche con Ballerini, cioè con un amico, per Rebellin. Pensavo che un atleta decisissimo a diventare argentino, spendendo parole pesanti sul proprio Paese, non avesse più diritto a ridiventare italiano (parlo come casacca az­zurra). Ballerini, evidentemente più realista di me, o meno in­transigente di me, non era d’ac­cordo: difatti, lo perdonò e lo ri­chiamò. Che poi sia finita come sappiamo, è solo una disgraziata coincidenza. Resta il discorso generale: se non ci mettiamo in testa che certi ruoli implicano per loro natura un minimo di coerenza e di fermezza, continueremo a collezionare figuracce imbarazzanti. Non lo auguro al presidente Di Rocco, non lo au­gu­ro al ciclismo italiano, tanto meno lo auguro a Bettini: ma se un giorno i giornali sparassero di nuovo la storia delle ambigue residenze a Monte Carlo, con gli annessi e connessi della equivoca residenza fiscale, chiamando in causa il nuovo ct azzurro, ecco, cosa diremmo tutti quanti? Non credo che il ciclismo italiano abbia più bisogno di questo marketing. Abbiamo già dato troppo, abbiamo esaurito il bo­nus. Se vogliamo rifarci una re­putazione, dobbiamo essere più rigorosi degli altri. Spero lo capisca per primo Bettini, se non ci arriva il presidente.
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