Ormai è il caso di protestare vivamente contro Foggia e Crotone. Grosso modo, da quello che mi risulta, sono le uniche due località italiane che ancora non abbiano pensato di organizzare un campionato del mondo. Vergogna. Vedano di darsi una mossa.
Diciamoci la verità: ormai è pandemia. Negli ultimi tempi borghi e contrade hanno contratto questo virus feroce e implacabile: la mondialite. Ogni mattina c’è un organizzatore, o un magnate, o un assessore, che si alza dal letto con l’idea originale di portare i Mondiali sottocasa. All’inizio ho cercato di tenere il conto, ormai ho rinunciato. Credo che sui tavoli dell’Uci giaccia una pila di un metro e quaranta di dossier tricolori, tutti fatti allo stesso modo, “il grande evento nella terra naturale del ciclismo, il miglior Mondiale di sempre”. Ad ogni comitato che si forma, ad ogni richiesta avanzata, mi sovviene sempre la stessa domanda: ma com’è che tutta questa fregola di ciclismo salta fuori solo per organizzare il Mondiale? Dove finisce, miseria, prima e dopo la presentazione del dossier all’Uci?
Ovviamente è una domanda ridicola. Conosco bene la risposta: per una località che è mossa dai più nobili ideali, ce n’è una mezza dozzina che si muove soltanto come un cane da tartufo, spinta avanti dall’inconfondibile aroma del business. Che sia un vero business resta tutto da provare: ma all’inizio, nelle intenzioni, tanta brava gente lo vive così. La vanità di qualche baronetto in cerca di visibilità, gli immancabili finanziamenti pubblici, la solita mammella della banca locale da succhiare a più non posso. Queste le vere pulsioni iridate di tanti connazionali. Guardano i Mondiali e nelle loro pupille girano dollaroni.
Sono ingeneroso? Forse sì, sono ingeneroso. Anzi molto carogna. Però anche tutti questi inarrestabili organizzatori che lavorano così alacremente dovrebbero guardarsi un po’ allo specchio. Chiedo loro: sembra utile e sensato che ogni tre per due salti su una località italiana con ambizioni mondiali? Cosa vogliamo fare, un Giro d’Italia solo di tappe mondiali? Può pure essere interessante, come idea, ma ho il timore che duri un po’ troppo, potendo correre soltanto una tappa all’anno. Via, cerchiamo di essere seri, qualche volta. Ci sono nazioni evolute che faticano a chiedere un Mondiale ogni morte di Papa. Noi, se ci lasciano fare, ne vogliamo uno al mese. Non esiste, è grottesco.
Tengo a precisare: non ho nulla contro il Mondiale in Italia. Anzi, lo trovo bello. Però, come tutte le giornate eccezionali, deve restare eccezionale. Per capirci: se tutti i giorni fosse Natale, alla fine persino il Natale comincerebbe a rompere. Allora: l’ideale sarebbe avere un grande calendario internazionale che assegnasse un Mondiale ogni dieci, venti, trent’anni ad ogni singola nazione. Finito il giro, si ricomincia. In questo modo, getteremmo subito secchiate fresche sui bollori dei nostri megalomani di estrema provincia. Uno può ancora alzarsi la mattina con la fissa di avere il Mondiale in cortile, ma l’idea resta quello che è: l’eccentrica fantasia di un visionario. Il problema nostro, adesso, è che invece si trasforma subito in progetto, con tutto l’armamentario di pierre, ufficio stampa, cartelline promozionali, cene e bicchierate, in un grande e costoso calderone dove ovviamente trovano posto progetti di tangenziali, parcheggi e metrò veloci. Sì, perché a noi non basta organizzare una semplice corsa in bicicletta: quella è solo la scusa, in realtà ai baronetti di paese interessa la polpetta dei finanziamenti. Da enti pubblici e da sponsor privati. Tu chiamala, se vuoi, spassionata passione. Sarà che le ruote somigliano maledettamente agli zeri di certi assegni…
Vengo alla modesta proposta, come diceva l’inarrivabile vescovo Jonathan Swift, padre dell’ironia. Da ora in poi, prima di avanzare una candidatura, il solerte comitato locale alza il telefono e chiama la sede centrale della Federazione. Lì si spera risponda un responsabile che tenga monitorata la situazione, in grado dunque di rispondere anche cose del tipo “amici, avete già davanti un capoluogo di regione, sei capoluoghi di provincia e svariati borghi medievali: vediamo di non farci riconoscere, all’estero”.
Cosa fare, a quel punto, di tanta spassionata passione? Direi questo: anziché sbattersi per un giorno, i solerti promotori provino a sbattersi tutti gli altri giorni dell’anno, guardandosi in giro. Vedranno un’Italia di Comuni sempre meno sensibili alle necessità del ciclismo, siano di sicurezza generale, siano di promozione scolastica e giovanile. Se davvero avvertono questa irrefrenabile vocazione organizzativa e promozionale, provino a smuovere le loro realtà territoriali per progetti magari meno eclatanti, ma più utili e duraturi. Provino a convincere l’assessore che la pista ciclabile non è uno slogan elettorale, prima, e un comodo parcheggio per Suv e furgoni, poi. Provino a chiedere che la banca locale finanzi con qualche bicicletta la scuola di ciclismo dei ragazzini: costa pure meno. Provino cioè a organizzare ciclismo vero, per tutti, tutti i giorni. Forse rende meno soldi e meno notorietà, ma a livello di passione dà soddisfazioni impagabili. Perché un Mondiale passa, il ciclismo resta.
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