Rapporti&Relazioni
Aiutatemi a fare il nonno

di Gian Paolo Ormezzano

Nel ciclismo c’è una confusione ideologica che ri­schia di diventare una confusione esiziale, con un tremendo gioco suicida o comunque autolesionistico degli opposti.
Cerchiamo di essere semplicissimi. Tema: il doping e il parlare del do­ping. Il doping uccide il ciclismo, la gente non ne può più. No, la gen­te ama sempre il ciclismo, il doping casomai seleziona i ciclisti, mette alla prova l’amore dei ciclofili. Paradossalmente (o no?) proprio il doping certifica, conferma, rafforza la tesi dell’immortalità del ciclismo, che è fatto di sentimenti imperituri. Macché, il doping corrode, un certo giorno ci sveglieremo dal sonno dei residui sentimenti pro ciclismo per strani rumori, sarà il Giro d’Italia che passerà sotto le nostre finestre e non ce ne accorgeremo qua­si.
Si prenda il cicloturismo. È fio­rente, è affollato anche se costa or­mai caro, con tut­­ta la tecnologia so­fisticata che viene applicata alle nuove biciclette. No, il ciclotu­ri­smo di mas­sa è la prova che la gen­te che pe­dala cicloturisticamente, poeticamente, non ne può più del ciclismo agonistico classico, snaturato appunto dal doping. Mica vero, la gente pedala ispirandosi ai campioni, dopati e no. Mi­ca vero, la gente fa la sue scelte, le sue selezioni. Ma andate tutti a farvi be­ne­dire, nel cicloturismo il doping non solo esiste, ma è ga­loppante, dilagante, travolgente.

Ogni frase regge, ogni frase convince. Vero che ci vorrebbe una scelta, come sem­­pre accade quando ci sono problemi grossi e punti di vista credibili, e comunque problemi da discutere: specialmente allorché sono in ballo i sentimenti, o quello che resta di essi. Ma non è questo il punto, almeno per quel che ri­guarda il nostro discorso. Il punto è che quanto abbiamo scritto sin qui ha magari una sua validità, anche perché offre larghi spazi di pensiero, contemplando il bianco e il nero, il buono e il cattivo. E anche perché - ecco il pun­to, o al­meno un punto – si ri­volge, di­cendo del ciclismo, a gente co­munque del ciclismo.
Fuori dal ciclismo, e pur restando nell’ambito dello sport, quanto noi abbiamo sin qui scritto rischia di non essere capito, di essere scambiato per goffo tentativo di difesa, di venire ritenuto un problema in­terno del mondo della bicicletta, di equivalere ad un ar­zigogolare per coprire con le pa­ro­le, con il bla-bla-bla, una realtà atroce, di essere discorso condotto da un cieco che pretende di farsi valido col parlare forte, visto che non ve­de cioè non capisce nulla.

La nostra confusione ideologica è questa: non riusciamo a capire, non vogliamo capire che le nostre idee, anche quelle eventualmente valide, han­no il li­mite del nostro linguaggio, dei no­stri spazi tribali, della no­stra confraternita per non dire del­la nostra parrocchietta.
Abbiamo sul doping un atteggiamento di valida autodenuncia, ab­biamo contro il doping regolamenti duri, abbiamo campioni che han­no pagato, che stanno pa­gando. Ma fuori dal ciclismo il no­stro sport è considerato un sab­ba di gente drogata, di complicità sa­ta­niche, ben che vada di ignoranza o cretineria somma. Si celebra quel rito ancora sommo che si chia­ma Tour de France e a corsa ancora calda si dice che adesso bi­sognerà attendere che quelli dell’antidoping ci dicano se il vincitore e se i grandi sconfitti sono puliti o no. Da fuori, sembriamo un gran­de itinerante manicomio criminale. Un mattino apprenderemo di essere stati sbattuti fuori dai Gio­chi olimpici e non sapremo cosa dire, cosa fare. Ma allora?

Ma allora dobbiamo farci furbi, attaccare per non essere sempre e soltanto attaccati, attaccare quelli che gettano sospetti su ogni nostro evento, dal circuito cicloturistico di Roc­­cacannuccia al tappone del Gi­ro d’Italia. Isolando i nostri cor­ridori/peccatori. Sfruttando ogni occasione mediatica. Attac­can­do con un piano federale, sì. Accet­tan­do di gettarci nel baratro, però abbracciati ad altri. Non possiamo osare di sperare che fuo­ri dal ciclismo venga capita e apprezzata la lotta nostra al do­ping. Dobbiamo dirci colpevoli, malati, per poter dire che anche gli altri non sono sani. Dobbiamo approfittare di ogni occasione, fosse anche l’in­ter­vista televisiva per parlare di un callifugo, per dire che gli sport do­ve non c’è il doping sono molto semplicemente gli sport dove non esiste l’an­ti­doping che lo denunci.
Anche perché, se si vuole davvero battere il doping, bisogna dilatare il problema, farlo cosmico. È co­me una malattia: gli studi, le spe­se, le ricerche per debellarla vengono affrontati soltanto se la ma­lat­tia stessa è universale, se colpisce tutti. Invece di dire “noi drogati, ma neanche tanto, comunque reattivi”, bisogna dire “noi drogatissimi, ma tutti drogati: e allora cosa si fa?”. Altrimenti il ci­clismo viene usato da tutti gli altri sport: lui brutto e cattivo, noi bel­li e buoni, belli e sani. Perché per la dose di sdegno media, normale del bipede umano, uno sport da crocifiggere basta e avanza. Per­ché per l’ipo­cri­sia farisaica della massa il ciclismo serve benissimo come sfogatoio. Perché i ciclisti sono poveri (di spirito: cioè poveri nello spirito, quelli insomma del discorso della montagna, non carenti di spirito inteso come in­telletto) che si offrono ad essere sbranati.

Perché non è davvero bello non poter ormai celebrare una corsa che è una senza aver paura del doping, di qualche tegola che ci cadrà in testa. Non accade in nessun altro sport. Non è mai accaduto nello sport, anche se certi pensieracci sul ciclismo co­minciano ad essere spostati su altri sport (rari) che si avvicinano al ci­clismo perché masochistici e onesti, come l’atletica leggera, persino e specialmente quella mondiale e olimpica. Perché io ho sei nipotini che cominciano a farmi domande pe­santi sul perché mi occupo di ciclismo.
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