Rapporti&Relazioni
Italia rotta

di Gian Paolo Ormezzano
Il Tour de France divenne fa­moso per la sua epica, per i sacrifici che chiedeva all’insegna addirittura del fa­chirismo. Sino all’imprecazione scritta sul­la polvere di una salita pirenaica da un corridore di­strutto dalla fatica: “Assassini!”. Per tantissimi anni il Giro d’I­talia è parso, al confronto, una corsetta a tappette, in località di solito amene e ad un certo punto anche in un paese - l’Ita­lia, nella fattispecie - più accogliente della Francia dal punto di vista turistico, meglio solcabile dal punto di vista stradale e (per i suiveurs in auto) autostradale.
Nelle ultime edizioni invece i ruoli sembrano cambiati: la Francia si è ben dotata di alberghi e autostrade, intanto che l’Ita­lia si è rotta tutta. Sì, perché una delle constatazioni purtroppo più facili e dolenti, percorrendo le strade del Giro e specialmente quando la corsa rosa sta nel Sud dell’ex Bel Paese, è che l’Italia è rotta: rot­te le strade, le case, le cose, pers­ino le cabine telefoniche, rot­to il panno verde del biliardo del Bar Sport, rotta la sedia su cui credi di poterti lasciar cadere, rotte le insegne stra­dali, le macchinette per la ri­scos­sio­ne automatica di pedaggi sulle autostrade, le insegne luminose che da lontano dovrebbero an­nunciarti la farmacia…
La Francia adesso funziona, una volta bastavano i suoi te­lefoni arretratissimi a fartela ma­ledire, e quando il Tour arrivava finalmente a Briançon era un correre in Italia, a pochi chilometri stava Claviere comune nostro, e c’era la nostra magica teleselezione. Al Giro d’Italia invece eravamo coccolati da Vin­cenzo Torriani che turisticizzava al massimo la sua corsa, e che ci voleva felici e sereni, così che non lo criticavamo mai, quasi mai. Adesso al Gi­ro c’è persino più scoutismo che al Tour, nel senso che può accadere di doversi “aggiustare”, an­­che perché la corsa non sembra più avere grandi poteri nei ri­guardi ad esempio del traffico au­tomobilistico. Invece il Tour è diventato, con la sua “mondializzazione”, una grande mac­china livellatrice, dominatrice, condizionatrice.
Magari sono sensazioni e basta, magari restiamo colpevolmente alla superficie della congettura, dell’impressione fugace e non sempre diretta, ma mediata da indicazioni altrui. Però non ci viene più facile e intanto doveroso come una volta toglierci il cap­pello di fronte al Tour de France.
Anche perché il passare del tem­­po ha significato la caduta dei (nostri) capelli, e scappellarci diventa imbarazzante…

fffffffff

Al posto di Alfredo Mar­tini (che sempre sia lo­dato) al­bergheremmo e alimenteremmo dentro di noi la voglia mat­ta e forte di mandare al diavolo chi ci dà - in privato ma anche alla televisione - del grande vecchio saggio. Non per il vec­chio che è un dato anagrafico di fatto, non per il grande che è testimoniato dalle cifre di una carriera, ma per il saggio, che di questi tempi frettolosi, ga­glioffi, ignoranti, trombonistici, sta diventando, se non un insulto, un limite, una connotazione che sa di passato, di muf­fa, di stantio.

fffffffff

Ci sono dei calciatori mol­to scelti dalla pubblicità per prodotti assortiti, dai te­le­fonini al deodorante. Su tut­ti Can­navaro, Gattuso e Tot­ti, ma anche altri, più o meno impacciati. Non c’è nessun ci­clista, e pensiamo che se ci fos­se adesso un Pantani, con tutta la sua gran­de popolarità, non verrebbe scelto come testi­mo­nial. Pen­sia­mo e speriamo.
Sì, perché pensiamo che per via dell’uso di certi suoi campioni a fini pubblicitari il calcio assume una non credibilità supplementare che, se da un lato gli garantisce l’adesione sempre più spinta e cieca da parte del popolo becero, dall’altro evidenzia sempre di più la sua com­mercializzazione, la sua scia­gurata idoneità a fungere da domatore e dominatore delle coscienze, delle scelte. Per­ché da un punto di vista etico ve­dere che i tuoi campioni sono usa­ti per reclamizzare prodotti distantissimi dalla loro realtà sportiva può dare, sì, una gratificazione materiale, ma dà una sor­ta di disagio morale. Perché è cosa buona e giusta, per l’uo­mo, sapersi sempre porre, a pro­posito di chi e di cosa lo circonda, anzi lo vuole circondare e limitare, la sacra domanda: “Ma cosa c’en­tra­no questo qui, questa cosa qui con quella roba là?”.
Niente di più, per carità, sennò passiamo per nemici del dinamismo economico, dell’inventività, insomma del progresso. E che questo non sia mai detto (anche se speriamo che sia sempre pensato: certe arretratezze rispetto ai tempi, se sono tempi smodati, e al mondo attuale, se è un porco mondo, sono fiori all’occhiello).

fffffffff

Quando, fine anni Cin­quan­­ta, cominciai a se­guire le corse, un collega milanese mi disse che la do­manda basilare, quando si sviluppa una fuga, è questa: “Cia­pel o ciapel pu?”. Dove la “u” del dialetto lombardo si pronuncia alla francese, e dove si considera o la fuga di un singolo o quella di un gruppetto: lo prendono o non lo prendono più?
Nelle molte troppe tappe del Giro e del Tour in cui alla fine il gruppone piomba (o sta per piombare) sul fuggitivo, sui fuggitivi, mi sono ripetuto la frase tantissime volte, ringiovanendo. Grazie.
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