Pensando al 2010 come all’anno in cui scadono i cinquanta (mezzo secolooooooo) dalla morte di Fausto Coppi e i dieci dalla morte di Gino Bartali, ho provato più volte, per ragioni sentimentali ma anche professionali e diciamo pure editoriali, a pensare ad alcune situazioni: ad esempio i due ancora vivi, Bartali avrebbe nel 2010 novantasei anni (l’altro giorno in televisione un novantaquattrenne al quale è stata rinnovata al licenza di guidare aerei ha parlato in maniera lucida e stupefacente, la bella figura diritta e serena), Coppi cinque di meno. Non mi interesserebbe comunque come sarebbe la loro supervecchiaia, ma come ad essa sarebbero arrivati, fra l’altro in quale modo accompagnando il ciclismo, fra l’altro con un nuovo giornalismo, lontanissimo da quello “innamorato” dei loro tempi, ad attenderli al varco.
Ma ho anche pensato ai due in qualche modo usati: dalla politica, a livello locale o nazionale; dalla pubblicità, magari per prodotti trucidi, ringiovanenti o presunti tali; e usati dalla televisione per qualche apparizione tenera o feroce ma comunque intensa, da Sanremo in su o in giù a seconda dei punti di vista; e usati dalla memoria, per esercizi di pignolo ricordare ma anche di comodo dimenticare.
In chiave minimalista mi interesserebbe che fosse finalmente deciso se si deve dire Bartali e Coppi oppure Coppi e Bartali. Nel primo caso ragioni anagrafiche ed alfabetiche, nel secondo ragioni di mitica ciclistica incrementata dalla morte dell’eroe giovane, o anche ragioni fonetiche, Coppi e Bartali forse scorre meglio di Bartali e Coppi.
Mi interesserebbe come i due potrebbero essere spupazzati su internet, diabolica entità probabilmente attirante a priori un moccolo di Gino e un silenzio perplesso di Fausto. Mi interesserebbe il loro rapporto con Fiorenzo Magni novantenne splendido di successo anche nella vita del dopo, e dunque non più terzo uomo. Mi interesserebbe il loro rapporto con Alfredo Martini, che dei due fu compagno e assistente in corsa e che ha fatto quella carrierona come cittì.
Non mi interesserebbe, ne sono certo, il loro rapporto con altri temi moderni: l’amore, il sesso, il matrimonio, la famiglia. Perché in vita si sono schierati perfettissimamente, e non mi sembrano proprio, quei due, tipi ai quali il modernismo fa cambiare idee.
Mi interesserebbe sapere cosa pensano del computer: il mio almeno, accorgendosi che sottolinea in rosso, come parola “estranea” al suo lessico, Bartali, e non invece Coppi. Ma non c’entra il tifo, c’entra il fatto che coppi nella lingua italiana è un sostantivo, significa tegole.
Non mi interesserebbe sapere cosa pensano del ciclismo attuale e dello sport tutto. Per paura di trovarli schierati con me, e dunque non solo apparirmi noiosi, ma anche apparirmi a rischio di errore, visto che io mica sono sicuro di pensar giusto; o per paura di trovarli schierati contro di me (ci starei male); o per paura di scoprirli non (non più) interessati; o per paura di scoprirli lontani fra di essi oltre che - insieme - dal tempo; o per paura di scoprirli coinvolti alla maniera del vecchietto che nei films sul Far West scaracchia le sue verità, anzi le verità dei suoi tempi, seduto ad un tavolo del saloon, e nessuno se lo fila.
fffffffff
La supercronometro del prossimo Giro d’Italia, quella delle Cinque Terre, mi fa tornare in mente un fatterello di cui parlai alla radio, anni fa, e che diede vita a un siparietto in una diretta con la partecipazione di uno dei diretti interessati. Forse l’ho già scritto da qualche parte, comunque sarei presuntuoso a pensare che qualcuno possa ricordarsi di cosa ho scritto, e lo riscrivo. Al suo primo Giro d’Italia un ciclista torinese, un velocista gregario di Coppi, si trovò affiancato, mentre la corsa si appropinquava proprio alle Cinque Terre, da un pedalatore velocista anziano, un capoccia che contava, e che in vista delle salite di quel giorno aveva problemi tipici dei velocisti. Il vecchio comprese che il giovane come lui avrebbe finito per farsi staccare e per pedalicchiare nelle retrovie, e che a lui si sarebbe appiccicato, e allora gli chiese se sapeva tenere la bocca chiusa. Al sì fervido e convincente mise a parte il giovane del suo piano, che venne eseguito così: lasciare che il gruppone li distaccasse, pedalare straccamente, in un certo paesino uscir di corsa senza essere visti, salire su un treno (il vecchio aveva tutti gli orari aggiornati e i biglietti pronti, due biglietti perché aveva previsto compagnia), con le biciclette a spalla, rimanere sulla terrazzina dell’ultimo vecchio vagone (il vecchio sapeva tutto) per una bella serie di gallerie, scendere ad una certa stazioncina dopo avere così bypassato tutte le salite in programma, nascondersi dentro ad un cespuglione, lasciar passare il gruppo e accodarsi. Così fu. A cronometro non ci potranno essere epigoni di quei due (iniziali: A.B. e P.F.).
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Ricordo personalissimo di Candido Cannavò. Lo conoscevo bene, lo stimavo tantissimo, c’era persino affetto fra di noi. Mi mancava uno sdoganamento suo speciale, non da giornalista, men che mai da direttore: da uomo grande. Avvenne quando assistetti ad un suo abbraccio forte e sincero con un grande uomo che mi fa anche l’onore di essere mio amico, don Luigi Ciotti, in un’occasione non ciclistica e neanche sportiva. Il sacerdote abbracciò il giornalista che si era fatto anche missionario nel suo mondo, e io fui felice, persino più felice che geloso.
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