Ad ogni Giro d’Italia svelato, c’è ancora, e oseremmo dire “per fortuna”, chi si duole del percorso. E delle sue inevitabili esclusioni. E così, un giorno lo abbiamo fatto noi, di Napoli, per quel Giro 2006 che si fermava solo a Peschici, e oggi lo fanno - per voce autorevole del sindaco di Agrigento Zambuto - quelle regioni del Meridione più profondo che dal Giro 2009 non sono toccate. Bene così. L’Italia unita resta troppo lunga per un Giro solo, o per un Giro all’anno. Proviamo a reinventare quello dei dilettanti, almeno, un Giro dell’Avvenire. E con lo sbarramento appunto dell’età: o delle squadre nazionali, per offrire una lettura plausibile di interesse tecnico e organizzativo.
Ma tant’è, e senza perifrasi, noi ciclofili di Napoli, scusateci lo spirito municipale, ci siamo sentiti, per una volta in 100 anni, epicentro del ciclismo. Tre tappe del Giro da queste parti, hai visto mai, e tutte e cinque le province attraversate, con ben tre sedi di tappa: Benevento, Avellino, Napoli... Abbiamo vissuto - non sorridete di noi, quasi sessantenni, di grazia - questa notizia come fosse una emozione pura. E abbiamo interpretato egoisticamente le anticipazioni personali trapelate, strada facendo, degli organizzatori come i preziosi omaggi tributati ad una storia di profondo affetto. Tra Napoli e il Giro, se non tra noi e la “rosea” non c’è stato amore occasionale. Perché sì, cari lettori, il Giro e il ciclismo restano la vera vita nostra, o la fantasia sempre ultima in coda alla giornata: perciò non se ne fa a meno.
E rinasce ogni volta ieri, oggi lo diciamo a Zomegnan, come dieci anni fa a Castellano, e un tempo più lontano a Torriani, quell’impegno a programmare le nostre giornate prima di studio e poi severamente lavorative, in funzione del Giro. Il Giro dalle nostre parti. Come fosse una festa del patrono. O il Capodanno. E che tristezza, che disdoro, appunto, quando si saltava l’anno, per motivi che ci era duro accettare. Un compleanno celebrato, in meno.
Corteggeremo una volta ancora gli alberghi della corsa, anche se oggi il “pass” ci è scontato, come fossimo i ragazzi di un tempo. E chiederemo - non più personalmente all’amico Raschi, d’accordo - dove ospiteranno. Quella volta, indimenticabile per ironia, che Raschi ci scrisse, per il Giro 1977, «A Napoli saremo tutti all’Hotel Stadio. Ne ignoravo francamente l’esistenza».
Ma questa volta, in una Napoli oltraggiata dalle storie che tutti conoscono e che non segnalano innocenti, dalla camorra alle vergogne estreme delle istituzioni, dal trasformismo dei politici alle proprietà immobiliari incongrue ad umiliare una platea di degrado, forse con un cardinale Lavezzi salvatutti - ma per quanto? -, il Giro d’Italia ci propone di più, molto di più. Si propone, con urgenza, per una lettura non solo spontaneamente idilliaca. E per un traslato non limitatamente intimistico.
Il Giro 2009 e il suo corteo vogliamo infatti salutarlo come icona non solo di un ricordo rituale o di una coltivata nostalgia, bensì come espressione esemplare di una comunità di lavoro, in movimento. Come lezione di un sodalizio di persone - si chiamino Zomegnan, Vegni, Meda, Figini, Diciatteo, Allocchio, Giannelli, Della Vedova, Mulazzani - impegnate a produrre, a creare, ad inventare. Una fabbrica benedettina, contro le invasioni barbariche.
Il Giro in “questa” Napoli e in Campania, nel 2009. Quel sapore di alveare, quella costruzione indefessa di un edificio itinerante, quella intensa definizione da amanuensi di un progetto comune che mai come stavolta invidiamo. Da una città inabissata.
E che il Giro d’Italia, con la sua teoria di colori e il fruscio delle ruote, percorrendo anche a ritmo di bici comune le sue vie, dalla Rocca dei Rettori di Benevento alla via Caracciolo di Napoli, al litorale domizio, possa pervaderle di quel profondo senso di una civiltà solidale che resta la sua secolare ricchezza.
Senza prezzo e senza rischio alcuno di svalutazione.
Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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