Capita per un caso sempre più raro, chiamiamolo senza offesa uno “zapping” di buona sorte, il rintracciare qualcosa che valga ancora la pena, per proporre ciclismo oltre. Con la certezza di poterci guardare con dignità allo specchio. E senza il dubbio di offrire un valore che il giorno dopo potrà essere smentito.
Avremmo voluto sottolineare, con una discreta presunzione, che troviamo emblematico della profonda crisi intima del ciclismo di oggi la considerazione che gli espulsi, sia pure per doping, li vadano a riprendere, al Tour, con una Porsche Carrera e non li mandano a casa, come tanti anni fa, con il primo treno ed un foglio di via... A costo di sfiorare l’impopolarità e l’anacronismo. Ed avremmo voluto onorare, con un pensiero affettuoso, la fine di Enzo Moser, il primo dei Moser, prima dello stesso capostipite Aldo e della recluta Francesco, che abbia indossato una maglia rosa. Ed illuminare quanto sacrificio, quanto ciclismo (quello che non c’è più) ci possa essere, idealmente, in una morte contadina. Chi ricorda, ad esempio, Silvano Schiavon, ed il suo silenzioso trattore colpevole, un altro del Nord Est se fossero esistiti i “regionali”, lui senza una maglia rosa, eppure tante volte piazzato al Giro ? Morti di lavoratori frugali, pane e vino, morti di uomini di famiglia, ciclisti per sempre, anche a bici deposta a fianco al muro. Ma se codesti valori fossero totalmente sconosciuti al ciclismo attuale, e ai suoi interpreti, avrebbe ancora senso scrivere di questo sport, e cercare di trovarvi un nucleo di verità da esporre ?
E capita, però, quel caso sempre più raro, a riscattarci dal peso dell’Epo e delle positività dei nostri Tour. Ti colpisce una notizia breve, che diventa un racconto curioso e accattivante, e viene da un ricordo riacceso delle Alpi, tra una delusione e un’altra. L’Alpe d’Huez, uno di quelli che vi vinsero due volte...
Chi se lo ricordava Peter Winnen, l’olandese della Capri-Sonne e poi della TI-Raleigh che si aggiudicò per due anni (’81 e ’83) il traguardo più classico delle Alpi, in Francia ? Ebbene, il piccolo olandese dai capelli rossi, che fu maglia bianca al Tour del suo esordio e si classificò poi terzo assoluto nel 1983, va ancora in bici. E questa potrebbe non essere una grande notizia.
Ad ognuno il suo Memorial o la sua Gran Fondo, si sa, ma il “Meet and Greet” con Peter Winnen del 16 agosto ad Ysselsteyn, a 25 anni esatti dal suo secondo successo sull’Alpe d’Huez, avrà un sapore particolare. La kermesse in questione sarà infatti solo il primo tempo, diciamo tradizionale, di una iniziativa - la “Peter Winnen Classic” - che si realizzerà pienamente a settembre, con una replica della cicloturistica in... Etiopia! Il generoso Winnen, che si è cimentato con successo nel campo letterario-giornalistico dopo aver lasciato il ciclismo agonistico, è diventato il promoter di un incredibile piano di sviluppo, fondato sul volontariato, e nel nome del ciclismo, proprio nel paese africano. Dall’Alpe d’Huez all’Altopiano del Tigrai. Da Ysselsteyn a Macallè...
E ci viene da ringraziarlo, mentre sfumano i titoli di coda di un Tour peggiore dei soliti e certo molto peggiore dei suoi, per aver progettato così tanto, tanto di più, per un ciclismo che sia universale nel mondo, e non solo nella nazionalità degli ordini di arrivo. Tanto, tanto di più, e con i fatti, di quanto - a lettere di stampa mensili - per un ciclismo a dignità di uomo proviamo a fare ancora noi.
Gian Paolo Porreca,
napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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