C’è ancora, ad una nuova primavera, deo gratias, un ciclismo che ci ispira. E che si conferma, di sentimenti validi, e non solo banalmente buoni. Se questo sport l’abbiamo eletto come massima interpretazione in terra di una ideale fantasia, di un sogno ad occhi chiari, le vicende in tempo reale di Nicola D’Andrea e Leon Van Bon, giungono puntuali a confermarcene la verità.
Nicola D’Andrea, detto “Nick”, 25 anni ad ottobre, è un giovane professionista casertano, di San Nicola la Strada, che gareggia dal 2007 per la Miche. Un ragazzo del Sud, di un territorio da sempre innamorato del ciclismo come quella di Caserta, pur in un contesto sociale ed economico di estrema precarietà, e con un debito ormai inveterato quanto a chances organizzative ed imprenditoriali.
Questo ragazzo aveva un desiderio, da piccolo: disputare un giorno la “Sanremo”, quella corsa che per anni da bambino e poi da adolescente, nel solco di una solida tradizione familiare, aveva ammirato o solo intuito sui teleschermi della tv.
Ebbene, il sogno di D’Andrea si è realizzato. Con il numero “168” di iscrizione, in gara con la spinta e quasi per delega morale di tutti gli appassionati del suo paese e della provincia di Caserta, D’Andrea è riuscito a realizzare l’utopia: correre la Sanremo.
La sua telefonata di gioia, esclamativa, solo due giorni prima della corsa, è ancora in onda: «dottò, corro la Sanremooo!». La Miche-Silver Cross, infatti, è stata l’ultima squadra prescelta dalla RCS Sport per la partecipazione alla classicissima. E D’Andrea, così, ha corso sul palcoscenico della Sanremo, dopo ben 44 anni - la vita di un uomo - dalla ultima partecipazione di un conterraneo alla corsa: parliamo di Alberto Marzaioli, un capostipite, che con la maglia della Cite l’aveva disputata nel 1964.
Leon Van Bon, invece, è un corridore che identifica una storia, non solo un nome. Trentasei anni, una carriera che nasce nel ’93, Van Bon, nel solco tracciato da Rooks e Breukink, è stato con Boogerd e Den Bakker uno degli “affidabili” del ciclismo olandese dell’ultimo decennio. Dall’esordio nella Wordperfect di Raas alla Rabobank, dalla Mercury alla Lotto, e di nuovo l’anno scorso alla Rabobank, Van Bon ha vinto un bel novero di corse: una tappa a Fiuggi della Tirreno-Adriatico, due frazioni del Tour e svariate in altri giri, un Giro di Olanda (2001), è stato due volte campione nazionale in linea (2000 e 2006), si è aggiudicato la Cyclassics Amburgo nel ’98, davanti a Bartoli...
E solo l’anno scorso, di questi tempi, si era aggiudicato l’ultima corsa, a Nokere.
Bene, quest’anno Van Bon si è ritrovato senza squadra, perché la Rabobank non gli ha sorprendentemente rinnovato il contratto. La Rabobank, questa la lettura plausibile della decisione, ancora turbata dall’affare Rasmussen, non vuole più sotto la sua egida atleti che in qualche modo rappresentino il passato del ciclismo e della formazione, atleti di una generazione marchiata dalle plumbee vicende del doping. Tagliare di netto. Tutto, tutti, anche se innocenti. Anche se, come Van Bon, generosi capitani di strada, dopo i ritiri di Erik Dekker e Marc Wauters, anche se come Van Bon meritevoli di un congedo più grato.
Niente più spazio nel ciclismo maggiore, allora, per un reduce come Van Bon.
Ma Leon Van Bon non si è arreso. Ha ricominciato dalla pista, un vecchio amore, dove si era spesso cimentato nella gara a punti, provando a gareggiare pure nelle Sei Giorni... Ed infine ha fatto, in un solo gesto, una scelta di vita e di “altro” ciclismo. Da qualche settimana Van Bon corre per la prima e unica formazione Continental made in Cina, la Trek-Marco Polo Cycling Team, una squadra esotica di nome e di sostanza, che allinea ciclisti di nazionalità diverse: un capitano cinese, Li Fuyu, un cronoman russo, Sergey Kudentsov, un velocista australiano come Rhys Pollock, un reduce dalla VTT come l’altro olandese Bart Brentjens... Lingua ufficiale, l’inglese.
«Con questa squadra potrò girare il mondo e fare il ciclista viaggiatore a tempo pieno - ha detto Van Bon -. E non guadagno praticamente niente. Lo faccio per spirito di amatore della bici e per poter confrontarmi con altre realtà ed affinare così quel mio hobby, che vorrei diventasse il lavoro del futuro, quello di fotografo del ciclismo». Cominciando dal Tour de Georgia, USA, dal 21 aprile.
Ele storie di D’Andrea che scopre la Sanremo e quella di Van Bon che scopre un altro mondo su questa terra, ci sembrano davvero due avventure a lieto fine, per un ciclismo che ha bisogno di tanta fortuna. E di riscoprire innanzitutto quel sacro Marco Polo che era in sé.
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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