Caro professor Veronesi,
altri, tanti, se non troppi, le hanno scritto, in questo periodo di ciclismo infausto.
Io le scrivo, una seconda volta, dalle colonne di questa rubrica di un periodico vero di ciclismo. Nell’altra occasione, sei o sette anni fa, mi rivolgevo a Lei, Ministro della Salute in carica, chiedendole una determinante accelerazione sul disegno di legge sul doping nello sport, a buona memoria. La sua risposta, su pagina e di fatto, fu come sempre di parola: ineccepibile.
Caro professor Veronesi, noi ci siamo incontrati poi tante volte, diversamente, nei corridori dell’IEO, lì dove il protagonista non eravamo né io, né tantomeno una speranza di ciclismo come chance di riabilitazione psicofisica o risvolto ludico di una primavera smarrita, bensì una malattia e una persona cara che la combatteva con lei al fianco da anni: da quando era poco più che una mamma,
E l’ultima volta che ci siamo incrociati dinanzi alla Sala Operatoria della Senologia, un mattino aspro di gennaio, quel suo sorriso chiaro, di regola così rasserenante, aveva indosso una sfumatura di dispiacere: sì, le cose non erano andate proprio come avremmo voluto, sperato, festeggiato negli anni, auspicato, ma eravamo ancora lì a combattere, lo stesso. A combattere, professore, a dare il meglio di noi, non obbligatoriamente a vincere.
Ed è questo valore etico fondamentale che manca, scusandomi di un parallelo forse blasfemo, al piccolo ciclismo, se non allo sport in assoluto e alla vita propriamente intesa dei nostri giorni: il concetto impopolare, insito in un Medico come in un Atleta che sia degno di questo nome, della lotta perpetua, senza l’OBBLIGO della vittoria.
Caro professore, la sua ipotesi affidata alla Gazzetta di un team ciclistico FUV - Fondazione Umberto Veronesi - che abbia il suo sigillo di qualità affascina certo, ma ci commuove innanzitutto.
Il suo viso, il suo nome, la sua icona, da Via Ripamonti in onda per un mondo a pedali - assolutamente pulito - che possa rappresentare semmai un volano di conquista per la lotta al cancro. D’accordo, splendido. E anche il tanto criticato Lance Armstrong ha provato a fare qualcosa di simile: un Tour del Coraggio, Ride for Roses, per procurare fondi alla sua Fondazione, senza minimamente provare ad incentivare però la strada di un ciclismo ripulito.
Caro professore, tanta gente - TROPPA - oggi le sta tendendo la mano per essere meritevole che lei restituisca questa stretta di mano nella chiave unica della etica. Vincitori sospetti di Giro, industriali che forse ordivano gli arrivi delle classiche italiane a tavolino, team manager che un giorno non cercavano mica lei come ancora di salvezza per i loro ciclisti, ma solo un avvocato: un buon avvocato, e passa tutto, nel ciclismo dall’80 in poi.
Noi la invitiamo umilmente solo a fidarsi, in un microcosmo al cui centro non c’è più la figura cardine di un CICLISTA degno, unicamente di se stesso e del suo giudizio umano.
No, professore, non deleghi responsabilità e scelte ad amici dei suoi amici, a conoscenti del milieu, a bene informati: lo saranno sempre troppo, per essere meritevoli della sua ratifica.
O almeno chieda ogni volta conforto ad un grande compagno della sua giovinezza, al di sopra di questi ruoli e questi interpreti oggi così modesti: chieda lumi a Rino Negri, lo ricorderà certo, figura carismatica di un ciclismo sostenibile.
Un ciclismo del futuro, quello che è stato bambino in tutti i ragazzini del mondo, può nascere solo dal passato, mi creda, da una contropedalata all’indietro - diritti di autore a Mario Fossati -, non da un presente che impone la drastica cancellazione. Terapia chirurgica radicale, sappiamo quanto dolorosa.
Io, intanto, le voglio bene, e lei sa se è possibile di più, anche per questo.
Gian Paolo Porreca, napoletano,
docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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