Ormai debbo sempre più calarmi nel personale: me ne compiaccio e me ne dispiaccio. Il passaggio dal giornalismo di reportage a quello diciamo di saggistica è un segno di maturazione acquisita, o presunta tale, e intanto dell’età che ha fatto cumulo. Ho sempre meno da raccontare del presente e sempre più da raccontare del passato, sperando che abbia un senso per il futuro. È una evoluzione fisiologica, non c’è niente da fare e quindi niente da dire: sperando che sia evoluzione vera, e non involuzione, non attorcigliamento intorno ai ricordi. E sperando che di questa mia involuzione freghi qualcosa a qualcuno.
Calma, arrivo anche al ciclismo. Ho passato anni e anni di lavoro, anche duro, talora durissimo, maledicendo l’evento che mi chiamava, mi obbligava a fare la valigia, mi possedeva, mi ingoiava, spesso rimpiangendo di non poter essere sull’Evento, l’altro, scippatomi da un collega più bravo o in conflitto di tempo con l’evento assegnato a me. Devo dire che nel complesso mi è andata bene, più o meno ho visto e raccontato quello che volevo vedere e raccontare, sia in chiave di avvenimenti grossi, dai Giochi olimpici in giù, sia in chiave di inchieste scaturite da mie iniziative personali. Riaffermo qui la mia riconoscenza a Dio per la straordinaria fortuna che mi ha regalato: fare spesato la vita che, se ricco di mio, avrei pagato per fare, cioè andare in giro nel mondo dello sport e raccontare di esso su giornali e affini (ultimamente è nata per me l’alternativa delle conferenze: parlare anziché scrivere).
Calma, fra poco il ciclismo. Siccome è da più di mezzo secolo che scrivo sui giornali, accade se non altro per mere ragioni di grandi numeri che qualcuno mi conosca, e persino che qualcuno mi faccia domande sul mio giornalismo, e addirittura che qualcuno mi inviti a stilare un elenco delle mie preferenze come scrivano un tempo itinerante. Ma accade pure che quasi sempre, prima di lasciarmi aprir bocca perché offra la mia modesta però sincera graduatoria delle preferenze stesse, l’interlocutore aggiunga alla sua richiesta questa postilla: “Intendo dire quale sport ti ha attirato di più dopo, naturalmente, il ciclismo”. Dando, lui, per scontata una scelta mia di cui si dice assolutamente certo.
Ora, non è vero che io ho posto da subito, naturaliter, il ciclismo in cima alle mie velleità, alle mie aspirazioni, alle mie speranze. Le cose sono andate diversamente, e commetto l’atto enorme di presunzione di esporre il loro divenire confidando che questo possa servire a illustrare una vicenda giornalistica lunga e forse, al giorno d’oggi, con tutta la mobilità di lavoro che c’è, irripetibile: ergo interessante, se non altro archeologicamente. Ma soprattutto confidando che questo possa significare l’avvio del pagamento di un mio debito verso il ciclismo stesso: ed ecco perché scrivo queste cose su questa aperta, generosa, democraticissima pubblicazione.
Dunque: io non ho scelto il ciclismo, è stato il ciclismo a scegliere me. Povero ciclismo così buono e generoso. Ero arrivato a Tuttosport per vie d’acqua, dalle piscine in cui ero nuotatore agonistico, a diciannove anni avevo avuto la fortuna di scrivere dei campionati europei di nuoto nella mia città, Torino. Con Bruno Raschi, firmavamo i pezzi in coppia su Tuttosport, lui non sapeva nuotare però sapeva eccome scrivere, e nessuno di noi due sapeva - era il 1954 - di essere stato scelto dal ciclismo. In quegli anni facevo al giornale di tutto, fuorché scrivere di biciclette. Nel 1959 Raschi era andato alla “rosea”, dopo qualche anno di Giro d’Italia, e Carlo Bergoglio detto Carlin, il mio direttore, mi aveva detto che avrei fatto del ciclismo con lui, fra l’altro dettando al giornale i suoi articoli. Il 25 aprile di quell’anno Carlin morì, al giornale sapevano della sua scelta e mi mandarono al Giro che partiva in quella primavera. Ne ho fatti ventotto, fra Tuttosport e La Stampa.
Oltre che nel ciclismo mi avevano buttato sull’Olimpiade, cominciando da quella invernale del 1960 a Squaw Valley, Usa. Da allora ventitré edizioni dei Giochi, tremendo primato che temo proprio sia mondiale. Ho avuto estati di Giro e Tour e Giochi olimpici, sempre in viaggio. Il calcio è arrivato dopo, quando fra l’altro già avevo un certo peso - se non altro anagrafico - nel giornale e potevo persino scegliermi ogni tanto il servizio che “sentivo” di più.
Sono stato mediocre nuotatore in gioventù, patetico maratoneta in vecchiaia. Ho sciato molto, ho giocato a calcio e basket e pallavolo. L’unica volta che ho fatto una corsa ciclistica sono caduto quasi subito, lussandomi una spalla. Il ciclismo non mi è entrato dentro quando sono nato, ma mi è stato comandato da Carlin.
Cosa debbo e voglio concludere? Molto semplice: se vengo identificato soprattutto come giornalista di ciclismo, se di ciò sono lieto e fiero, se il ciclismo rimane per me l’esperienza più intensa, bella, onesta, affascinante di lavoro, fra l’altro impreziosendosi col tempo, questo vuole semplicemente dire che il ciclismo è una cosa grande e generosa e coinvolgente e indimenticabile e indimenticata.
Questo vuole dire che i suoi valori sono altissimi, intensissimi, fortissimi. Che uno può farsi mezzo secolo e oltre di giornalismo e scoprire che in fondo al cuore ed anche al cervello il ciclismo tiene il posto migliore, più sano, più santo. Senza nessun bisogno di essere ciclisticamente tatuato dalla nascita, senza nessun ascendente ciclistico in casa o nei dintorni, senza nessuna sirena di carriera legata o legabile al mondo della bicicletta, mi so adesso “ciclisticizzato” a vita, felice di esserlo, riconoscente verso il destino perché posso esserlo. La piscina da cui partii per portare a Tuttosport le classifiche delle gare di nuoto a cui prendevo parte era in realtà una vasca battesimale per entrare con tutti i crismi nella vita di suiveurs che con la fantasia continuo tuttora. E spero che un atto di immodestia lampante come questo articolo non me la comprometta: perché questo articolo è anche una dichiarazione d’amore.
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