Editoriale

di Pier Augusto Stagi

SPIRITO SANTO. È chiaro che dobbiamo dire che tutto va male, anche perché benissimo non va. Ma quando c’è qualcosa che funziona cosa dovremmo fare, tacere? Bene, facciamoci forza e diciamolo. Agli ultimi mondiali juniores - che per chi vede come fumo negli occhi la presidenza Dagnoni, non contano assolutamente nulla - siamo stati ancora una volta la nazione di riferimento. La 17enne Matilde Cenci è stata la stella indiscussa della rassegna di Apeldoorn: per la vicentina, tre maglie iridate (Team Sprint, Km e Keirin).
Splende anche la stella di Alessio Magagnotti, 18enne trentino di Avio, che di maglie iridate ne ha vestite due (inseguimento individuale e a squadre). Il sesto oro è arrivato dalla 18enne friulana Chantal Pegolo, a segno nell’eliminazione. In totale 6 titoli, 3 argenti e 4 bronzi, per un totale di 13 medaglie, che valgono il primo posto nel medagliere sia per numero di vittorie che di podi.
Insomma, molto bene. Va detto, senza se e senza ma. Si sta lavorando per Los Angeles e il materiale umano c’è e sta maturando. Alle spalle di questi ragazzi e delle loro famiglie e società di appartenenza, c’è uno staff azzurro di prim’ordine, guidato da Edoardo “Dino” Salvoldi, che conferma di essere nei fatti un “top player”, e Marco Villa, Diego Bragato e al pari di Ivan Quaranta, degni collaboratori azzurri.
Crescono le medaglie e con esse le ambizioni, ma non è un’opinione: è un fatto che ormai la giovane Italia ha scalato le classifiche per stazionare costantemente lassù in cima. L’inseguimento, per esempio, si conferma tra i migliori del mondo e non è un caso, ma ormai un fatto storico statistico, che da quattro anni gli azzurrini siano imbattibili. E attorno a loro ruota una vera propria scuola, osservata e “spiata” da altre nazioni, che vengono a prendere appunti e ispirazione.
Ho detto tante cose belle, forse fin troppo, ma sfido chiunque a dire il contrario su quanto stanno facendo Dino Salvoldi e compagni. Ed è altrettanto chiaro che qui la mano di Dagnoni & Amadio non c’entri assolutamente: questi tecnici sono lì solo per volere dello Spirito Santo.

LA NOSTRA AFRICA. Ci siamo quasi per i primi mondiali africani, a Kigali, in Ruanda. Inutile dire, ricordare e ripetere che per quanto riguarda la gara élite maschile, il 28 settembre, il favorito numero uno sarà il campione del mondo in carica, Tadej Pogacar. È un mondiale duro, esigente, dicono anche più di quello di un anno fa a Zurigo, dove lo sloveno fece un vero e proprio show. Molte federazioni nazionali hanno annunciato da tempo il loro disimpegno: quindi, salvo interventi dell’ultim’ora da parte dell’Uci (quando vogliono sono molto convincenti), queste manderanno a Kigali spedizioni ridotte all’osso.
A febbraio la Danimarca ha anticipato che non avrebbe mandato le squadre giovanili per contenere i costi, così come Belgio (e pensare che il Ruanda è stata colonia belga…), Olanda e Francia (ricca, ricchissima, che beneficia anche di un contributo annuale da parte di Aso). Pochi giorni fa l’annuncio che i danesi rinunceranno anche ai cronomen professionisti, portando in Ruanda soltanto la squadra élite per la corsa in linea.
Nathalie Clauwaert, dg della federazione belga - come ha scritto su “Il Domani” del 29 agosto scorso la bravissima Alessandra 
Giardini -, ha calcolato che mandare la squadra a Kigali costerà il doppio di quanto era costata la trasferta del 2022 a Wollongong, in Australia. La Francia ridurrà la nazionale a 3 atleti per categoria. L’Italia, alla fine, porterà una delegazione di 45 persone, di cui 27 corridori, contro gli 85 di un anno fa. In pratica saranno ridotte solo le squadre juniores, maschile e femminile: anziché con cinque atleti, si correrà con tre. Il taglio più profondo sul personale: massaggiatori, meccanici, accompagnatori e medici. In ogni caso la nostra Africa sarà meglio di quanto si potesse immaginare, e meglio di tante nazioni illustri alle quali in questi mesi nessuno ha stropicciato gli zebedei (sui social, i tanto adorabili social, sia ben chiaro) come accaduto al nostro movimento. I problemi da risolvere non mancano assolutamente, ma questo è un problema che è stato affrontato con la coscienza del buon padre di famiglia e sarebbe da disonesti non riconoscerlo.

INVESTIRE. Il ciclismo femminile nel mondo cresce, in Italia fatica. Lo si è visto ad occhio nudo al Tour de France, dove si è verificato il fenomeno che ormai contraddistingue da anni la “corsa rosa” maschile: le migliori scelgono di andare a correre oltralpe. Sono sbalordito dal seguito che ha avuto il Tour Women, a differenza della nostra corsa “rosa” che è stata accompagnata da una stagnante quanto preoccupante indifferenza. Capisco che non sia facile e che non tutte le responsabilità siano da attribuire agli organizzatori perché da noi c’è un chiaro blocco culturale, ma qualcosa va fatto. Rcs Sport spero comprenda che è il caso di investire (temo che tra le altre cose, a fine 2027, si liberi del Giro Next Gen): il ciclismo femminile italiano lo merita, così come è necessario avere una presa di posizione forte e chiara da parte della Federciclismo, che è proprietaria di queste corse: alle promesse di Rcs Sport, al momento, hanno fatto seguito pochi fatti.

OCCORRE LA POLITICA. L’onorevole Roberto Pella è uomo che conosce i Palazzi e le istituzioni, si muove con disinvoltura raccogliendo consensi: soprattutto risorse, che andranno ridistribuite, nel mondo più utile possibile, al sistema. Gli organizzatori sono in chiara difficoltà, hanno bisogno di aiuto e lui ha promesso che sarà al loro fianco. Ha messo all’ordine del giorno, chiedendo all’Uci le date, tre nuove corse (Magna Grecia, Torino-Lione, Sardegna), ma quello che spero possa fare visto le sue entrature è portare il professionismo in campo femminile. Per il momento si è limitato ad inserire le ragazze nella Lega, ma senza alcun titolo, visto che il professionismo in Italia è stato riconosciuto solo e soltanto per le calciatrici. Per il resto c’è da lavorare sodo e visto che Pella è uomo che accetta le sfide più difficili, potrebbe portare al vaglio della politica questa proposta da mettere all’ordine del giorno.
Lo sport al femminile non può essere considerato nel 2025 il parente povero del sistema sportivo italiano, così come c’è da affrontare la questione dei Corpi di Stato, che fino a prova contraria sono e restano per il nostro sistema sportivo (non solo ciclistico) fondamentali per l’attività di vertice. Se si vuole il professionismo, quello che oggi è un provvidenziale ammortizzatore sportivo, potrebbe trasformarsi in un contenitore solo per giovani promesse: sempre che i Corpi dello Stato accettino di svolgere solo questo ruolo di incubatrice. Insomma, l’argomento è delicato e non di facile soluzione. Occorre la politica romana, quella che il presidente Pella conosce bene ed è abituato a frequentare ogni giorno. 

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