Rapporti & Relazioni

E CI RISIAMO

di Gian Paolo Ormezzano

Gian Paolo Ormezzano se n’è andato il 26 dicembre scorso. Pochi giorni prima, mancava una settimana a Natale, accompagnato dal solito entusiasmo ci ha inviato il suo articolo per il numero di gennaio. L’ar­ti­colo è questo. L’ultimo. Ciao GPO e «w noi».

Penso che chiunque mi legge qui abbia saputo di Edoardo Bove, calciatore della Fioren­ti­na stramazzato sul campo, dei gravi problemi del suo cuore, della guarigione clinica e magari della ripresa atletica. Il suo dramma in diretta tv è stato spettacolare, anche se lui subito è stato circondato, nascosto e come soffocato dai compagni che gli han­no eretto intorno un drammatico muro umano, chi sommessamente piangendo chi vistosamente disperandosi chi dandosi co­mun­que da fare. Con un’am­bu­lanza coprotagonista.
Tanti auguri speciali a Bove, si capisce, e se torna in campo tutto il tifo per lui, ma una do­manda: siamo certi di avere dato al ciclismo, ai ciclisti lo stesso tipo di commossa e solidale partecipazione in mo­men­ti simili, per drammaticità intensità timore tifo preghiera eccetera, a quelli vissuti per Bove, con tutti noi idealmente in­torno a lui?

Il fatto è che - parliamo del­l’Italia - il ciclismo, come sport concorrenziale al calcio quanto a popolarità e idolatria popolare, patisce, e la co­sa dura da anni, un senso di inferiorità. Ciclismo inteso, sia chiaro, come strada (in linea, a cronometro e a tappe), pista (dove però ci sono troppe gare con formule astruse) e cross impervio per bici speciali. E basta, il resto è fuffa.
Un ricordo personalissimo, particolare, dove contarono e contano anche le sfumature di interpretazione. Torino, Gian­ni Savio presenta la sua squadra di professionisti messa in­sieme specialmente per il Giro d’Italia, dopo la sua consueta e sa­piente e competente raccolta di pedalatori onesti ma spesso dimenticati, di atleti talentuosi stracchi e di campioni ancora attuali ma ormai di­smessi dalla fama. Padrino Mi­chel Platini allora alla Ju­ventus. Uomo di punta della squadra di Savio il belga Fred­dy Maertens, due volte campione del mondo di professionismo su strada, battendo in volata una volta Moser, una volta Saronni. Di­scorsi eccetera, Platini, personaggissimo anche nella presentazione, di­rei nella concessione di se stesso, che come presenza prevarica Maertens, il quale, umilmente, gli chiede di come va il suo calcio ed evita di parlare di sé. Io che un po’ officiavo in aiuto al collega Rai Gior­gio Martino, mi sentii davvero a disagio. Per chi eravamo lì?

Adesso mi sento a disagio se devo spiegare, spiegarmi il ciclismo di fronte ai drammi fisici di un Remco Eve­ne­poel: quasi il pudore di parteciparli, come se si accusasse uno sport di essere in sé troppo pericoloso. Un pedalatore si schianta in corsa contro un’auto abusiva, lo stesso patisce, nel senso che paga con gravi ferite, l’apertura improvvisa della portiera di un camion. Sempre que­sto Evenepoel... Insom­ma, pare proprio uno che se li va a cercare. Più che riconoscimento del tantissimo che ha già vinto, anche in sede mondiale ed olimpica e in piena era Pogacar, sembra casomai contare quello che avrebbe magari vinto senza incidenti. Che imprudente, che jellato...

Una morte in bicicletta e in diretta, quella del venticinquenne Fabio Casartelli, caduto in una discesa pirenaica del Tour 1995, ebbe rilievo anche se non specialmente per il fatto che da allora si accelerò il movimento per rendere obbligatorio il casco (lui come quasi tutti non lo portava sempre), e quel ciclista più che assurgere a martire ebbe l’onore di apparire come un pioniere, protagonista e vittima di un sacrificio umano a pro di tanti, di tutti. Poco si ricorda dell’operazione di rianimazione, vana: eppure furono tre ore cariche di intensità.

Pensateci, pensiamoci. Ogni morto pesa in as­soluto, però se si muo­re facendo sport la “co­sa” ha un peso speciale. Dire che per via del dramma di Bo­ve ci riscopriamo in debito di commozione/emozione per Evenepoel - fra l’altro con un cognome ostico alla facile scorrevole pronuncia, anche questo conta, pazzesco ma conta - sembra strano, ma non è del tutto sbagliato. Il fatto che il ciclismo sia sport pieno (stavamo per scrivere “ricco” al posto di “pieno”…) di rischi e che ci abbia, come dire?, abituato ai suoi drammi non dovrebbe contare, ma intanto speriamo con queste righe di avere “raccolto” qualcuno in più allarmato e pensoso. Alla pericolosità del ciclismo, all’automobilismo pa­dro­ne delle strade, si attribuisce intanto un calo di tesseramenti giovanili, con ge­nitori allarmati e figlioletti impauriti: altro discorso, ma non discorso “altro”.

Sommessamente, direi naturalmente è intanto morto a 91 anni Rik Van Looy , un grandissimo, il Coppi delle gare in linea e dei traguardi di giornata delle gare a tappe (me­glio persino di Merckx). Ri­cordo che L’Equipe dedicò tutta una prima pagina nel cercare di stabilire una gerarchia di grandezza fra i due, Fausto e il belga molto ma molto fiammingo. Van Looy proprio non era scalatore, il titolo perfetto fu: “Tra Cop­pi e Van Looy una montagna”. Ma qui parlo di Van Looy anche se non soprattutto per dire che troppi gior­nali hanno dedicato troppo poche righe alla sua scomparsa. Di più se ne de­dicano a semisconosciutelli giocatori di calcio. E ci risiamo…

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