Bussi. L'ora di Vittoria, l'impresa di una donna speciale

di Nicolò Vallone

Duemiladuecentosessanta me­tri. Questa è la misura del miglioramento di Vit­toria Bussi da cinque anni fa al mese scorso. La location è la stessa, il velodromo di Agua­scalientes in Messico (che nel 2019 ha premiato pure Victor Cam­pe­naerts). La misura di allora 48.007, quella di oggi 50.267: un muro da cinquanta chilometri mai abbattuto prima da una donna in bicicletta. Quando la trentaseienne romana è rientrata in Ita­lia, l’abbiamo contatta per cercar d’entrare nei meandri di un record dell’ora che, non solo per la portata storica (da 65 anni un Paese non deteneva contemporaneamente il maschile e il femminile: nel 1958 era la Francia con Ro­ger Riviere e Renée Vissac, oggi siamo noi con Top Ganna e la Bussi) ha la­sciato tutti a bocca aperta.
Specifiche tecniche, rapporti compresi, Vittoria ancora non ne svela. Semmai ai nostri microfoni ne smentisce alcune: «Digirit, azienda che mi aveva fornito materiale di trasmissione (mi avevano mandato venti corone a 11 velocità e dieci pignoni di varie forme e di­mensioni) ha pubblicato delle foto “a caso” di un 72-11 e si è sparsa la voce che io abbia fatto il record con quel rapporto e frequenze di pedalata che manco in salita... Assurdità! Digirit ha chiesto scusa e ha cancellato il post, ma oltre a quelle “notizie” se ne sono diffuse altre basate su alcune foto dei gior­ni precedenti all’impresa: si trattava di un allenamento dove non avevo nemmeno le spugne sulla fascia di riposo né i copriscarpe, una situazione lontana da quella del record».
Dopo aver tenuto inoltre a precisare che «nessuna Federazione dopo aver vinto alle Olimpiadi diffonde dettagli tecnici su come si è allenata e preparata» la Bussi, laureata in Matematica alla Sapienza con dottorato a Oxford e post-doc a Trieste, pur stando alla lar­ga da numeri e cifre condivide con noi qualche aspetto legato al suo record. A partire dal grande principio di base: «Abbiamo cercato di fare qualcosa in totale controtendenza. Abbia­mo studiato la letteratura scientifica tenendo presente che nel ciclismo non è matematica certa al 100% bensì statistica, e che magari io potevo rappresentare il caso studio non ancora esaminato. Quindi abbiamo creato quasi “da zero” la realizzazione del progetto, sperimentando pure soluzioni estreme e senza precedenti, basandoci più su nostre ricerche applicate a me nello specifico, più che su metodi pre-esistenti. In un certo senso, ci siamo approcciati come se scoprissimo il ciclismo per la prima volta. Difatti abbiamo a tratti brancolato nel buio, ma non ci siamo mai fermati e alla fine abbiamo fatto quadrare tutto».
Un esempio pratico?
«L’ingegnere aerodinamico Simon Smart di Drag2Zero, con un passato in Formula Uno prima di darsi al ciclismo, colui che mi aveva già seguita nel record del 2018, ha gestito i test in galleria del vento a Silverstone e ha collaborato col designer di Hope Sam Pen­dred e insieme ci siamo sentiti quotidianamente per due anni. Partendo dal­­la HB.T che era la bici dei miei so­gni, Smart ha progettato tutto in base ai miei feedback: la larghezza dei poggiagomiti, l’inclinazione del manubrio, la lunghezza delle barre, il numero di spacer per avere la miglior guidabilità e il giusto compromesso tra aerodinamica e potenza, poi forcella e ruote in edizione speciale...».
Anche la posizione ha seguito il medesimo compromesso aero-potenza.
«L’abbiamo rivoluzionata. Mi ha gui­da­to Niklas Quetri, che mi ha cucito addosso una posizione più “alta” ossia meno allungata e super-compatta. All’ini­zio non riuscivo nemmeno a starci, mi faceva troppo male, ma lui mi diceva di fidarmi e di perseverare che prima o poi ci sarei arrivata. E il mio corpo si è adattato».
Senza dimenticare la palestra.
«Mi ha aiutata il professor Giuseppe Coratella, al quale più di una volta ho detto “Sei pazzo, non riesco a fare certi esercizi!” tipo lo squat overhead che non è esattamente uno standard per una ciclista: c’era da tenere il bilanciere in alto con le mani, avevo paura di spaccarmi una spalla. In generale sia lui che gli altri membri del team mi hanno fatto più volte uscire dalla com­fort zone: con un cavallo di razza come me si sono beccati qualche mala parola, ma anche un’atleta che è riuscita a portare a termine ciò su cui loro avevano ragione e su cui abbiamo lavorato coesi».
Altre figure fondamentali sono stati il nu­trizionista Marco Perugini e naturalmente il preparatore: Luca Riceputi, che ha preso Vittoria sotto la sua ala nel 2021 e le ha detto "Mi serviranno due anni per farti crescere". Detto, fatto. In definitiva, l’habitat ciclistico di Vittoria Bussi è la pista molto più che la strada?
«Ma sì, tutta la vita! Proprio come accadeva con il profumo del tartan quan­do facevo atletica leggera ai tempi del liceo, quando sento l’odore del le­gno della pista vado in estasi: io sono una da velodromi e rulli, su strada ho qualche carenza tecnica. Non è un caso che la mia specialità su strada sia la cronometro, che mi ha portato tre me­daglie d’argento ai campionati italiani, una vittoria di tappa al Giro di Re­pubblica Ceca, il bronzo nella team relay degli Europei 2020 e nello stesso anno il decimo posto al Mondiale di Imola (migliore italiana a 1’46’’ dalla vincitrice Van der Breggen, ndr). Il lungo su strada proprio non m’interessa, semmai mi dispiace su pista non aver mai provato a misurarmi con il quartetto ma solo nell’inseguimento individuale, nel quale peraltro è due anni che arrivo seconda ai campionati italiani».
Le dichiarazioni che avete appena letto, destinate a questo numero della rivista, si aggiungono a quelle più “esperienziali” ed emozionali che vi abbiamo fatto ascoltare nella puntata del 16 ottobre del podcast BlaBlaBike. Rimanendo legati strettamente alla super-performance di Agua­sca­lientes, la parola chiave di quella ma­gica ora di pedalate è: regolarità.
«Sono partita forte e mi aspettavo di ricevere una “botta” da dover gestire. Invece ho reagito benissimo a livello psicofisico, quel ritmo l’ho mantenuto e inaspettatamente sono riuscita a su­perare la barriera dei 50 km di oltre un giro».
Quello dei cinquanta era infatti l’obiettivo dichiarato: Vittoria non si accontentava di limitarsi a superare Joscelin Lowden ed Ellen Van Dijk, che avevano nel frattempo battuto il suo precedente record. Lei voleva fare qualcosa di unico: contro sé stessa, per sé stessa. Un’idea che nacque esattamente due anni fa.
«Andai al Rouleur Live, la fiera organizzata da Matteo Cassina a Londra. Quando mi presentai a Pendred dicendogli che volevo utilizzare la loro bicicletta per riprendermi il record dell’ora, lui si è commosso. Capii subito che l’avventura iniziava bene: empatia e gruppo so­no essenziali, senza le persone giuste non posso crescere come professionista. A quel punto ho continuato a formare la mia squadra e iniziato ufficialmente il percorso, finché il 25 settembre 2022 al motovelodromo di Torino lanciammo quel Road2Record che in realtà era già in essere da mesi: due come gli anni d’impegno complessivo, due in quanto ovviamente stavo tentando il secondo record».
La vera differenza, in sostanza, rispetto al 2018 è stato il team.
«Forse ancora di più che lo staff tecnico, la vera novità è stata la comunicazione. Insieme alle persone già menzionate, hanno lavorato a questa impresa Samantha Tozzi (che ha inventato il nome Road2Record e ne ha coordinato la comunicazione) col suo compagno ovvero l’ultracyclist Wally Rossano, le creative advisor Alessia Siciliano, l’esperta di social e contenuti digitali Costanza Ma­si e i fotografi Edoardo Frezet e Paolo Ciaberta. Ultimo ma non meno importante: Rocco Japicca, mio compagno di vita da quindici anni che nelle due settimane precedenti al record si è alternato con coach Ri­ce­pu­ti in Messico. Si sono fatti una settimana a testa al mio fianco».
Senza dimenticare le difficoltà da scavalcare.
«Ho superato il normale imbarazzo del chiedere soldi e ho raccolto dodicimila euro tramite crowdfunding, per il resto mi hanno aiutata sponsor come la Fe­ba­metal dell’ingegner Paolo Costa, la Vitobello Ricambi, la banca Allianz e altri. La vedo come una forma di de­nuncia sul fatto che il ciclismo non sia accessibile a tutti: il tentativo di battere il record dell’ora, di fatto, è un’iniziativa privata che costa come minimo cinquantamila euro. E parliamo della ba­se: se avessimo voluto diretta streaming o tv e allestimento del velodromo sarebbe costato ancora di più. E per fortuna non ho dovuto pagare la registrazione nel passaporto biologico, perché ce l’avevo già per le competizioni cui avevo partecipato in Nazionale. In­somma, di sicuro non l’ho fatto per soldi: siamo stati attentissimi coi conti per finire senza debiti».
Senza mezzi termini, Vittoria ha riscontrato poco supporto dalle Federazioni, sia internazionale che italiana.
«L’UCI potrebbe magari inserire i tentativi di battere il record dell’ora all’interno di altre manifestazioni, così da eliminare il costo dell’affitto del velodromo o i voli per i commissari: penso debba essere trattato più come una spe­cialità del ciclismo che come un evento privato. La FCI non si è mai mostrata interessata al mio record, mi sono dovuta allenare all’estero e durante l’intera fase pre-record non ho ricevuto nemmeno una telefonata».
A quel punto della conversazione, chi di voi l’ha sentita ricorderà che abbiamo lan­ciato una sorta di appello: quanto sarebbe bello che l’impresa di Vit­to­ria Bussi venisse posta in risalto nel “Giro d’Onore” organizzato dalla Fe­derci­cli­smo... E il 10 novembre, al teatro Man­zoni di Milano, ecco la meritata celebrazione. Con essa, il prestigioso Col­lare d’Oro del CONI.
Questa è l’aurea parabola di una donna che da ragazza aveva praticato atletica e triathlon, e che ha abbracciato il ciclismo esattamente dieci anni fa in se­guito alla perdita del papà.
«Occuparmi di questa passione mi ri­diede una direzione in un momento di “bussola persa” e, per fare della bici la mia attività principale, interruppi una possibile buona carriera in ambito ma­tematico-scientifico. Comunque so­no competenze che mi sono tornate utili in ogni cosa che ho fatto nella vita, re­cord dell’ora compreso, e mi ritroverò sempre: un domani potrei insegnare op­pure restare nel ci­clismo».
Una donna che si autodefinisce un “ca­vallo di razza” e che lo dimostrò già nel 2017, mentre preparava il suo primo record dell’ora e in tre anni aveva cambiato altrettante squadre: Mi­chela Fanini, Servetto e Granbike.
«Alle soglie dei trent’anni avevo un’idea di come si lavora e non mi trovavo bene a dover talvolta dire sì a qualcosa che non capivo: volevo fare l’atleta con le mie idee, allora con Rocco creammo la BJ Bike, dalle iniziali dei nostri co­gnomi Bussi e Japicca, ed è tuttora il team per cui sono tesserata».
Il team con cui ha battuto due record e conseguito gli altri risultati summenzionati. E adesso?
«Rifiato un po’ e poi deciderò bene a quali progetti dedicarmi».

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