Tour of Eilat, Israele paese delle sfide a due ruote

di Paolo Broggi

Cresce, strappa e poi continua regolare. È il ciclismo in Israele che da qualche anno ha trovato casa anche qui, in uno degli angoli più iconici del pianeta. Un luo­go che da sempre conosciamo grazie alla storia delle religioni e che da un po’ di tempo si svela anche attraverso lo sport.
La storia a due ruote ha avuto un inizio soft, guardata con il sorriso di chi non chi ci credeva, ma gli israeliani lo avevano dichiarato chiaramente qualche an­no fa. Vorremmo un team World Tour tutto nostro. All’epoca, esi­steva la Cycling Academy, un gruppetto disorganizzato di giovani, ma Sylvan Adams, il magnate che oggi con Ron Baron possiede la Israel Premier Tech, aveva deciso che quello sarebbe stato il traguardo.
Un secondo passo, la creazione del ve­lo­dromo coperto di Tel Aviv. Poi ven­ne un’altra idea guardata con totale in­credulità, ossia portare il Giro d’Italia nella terra di Israele. Al­tra promessa mantenuta il 4 maggio 2018 con il cronoprologo di Gerusa­lem­me. Un maxi spot all’insegna della normalità, del tut­to va bene, della sicurezza possibile anche in questa porzione di pianeta ri­tenuta troppo inquieta per i grandi eventi sportivi.
A seguire le altre due frazioni in linea di quel Giro: Tel Aviv ed Eilat. Ed è proprio qui, a Eilat, dove la terra di Da­­vide va a toccare Egitto, Arabia e Gior­­dania, che un piccolo organizzatore, Harel Nahmani, realizza il suo so­gno sportivo. Una granfondo nel deserto con 500 concorrenti al via. Una piccola pazzia a ridosso del Natale, quando il clima è piacevolmente asciutto, ma con 27 gradi, e la distanza, 140 chilometri per 1.897 metri di dislivello, sembra diventare impegnativa per gli europei non così allenati in un periodo in cui il vecchio continente è flagellato da neve e maltempo. Un’esperienza ricca di tanti significati, su strade perfettamente asfaltate, e con l’esercito a garantire la to­tale chiusura al traffico.
I sogni però non sono finiti, ora si punta al Tour de France, come candidamente ammesso da A∑nat Shihur Aharoson, funzionaria del Ministero del Turismo Israeliano durante la conferenza stampa di presentazione della Granfondo di Israele.
«Il Giro è stato un primo passo - le parole della funzionaria -. Abbiamo di­mostrato di saper lavorare e il mondo ha capito che possiamo fare ancora me­glio. Lavoriamo per portare in Israele il Tour de Fran­ce: ci crediamo, sappiamo che è difficile, ma accettiamo le sfide».
La Granfondo parte all’alba da Eilat e risale verso nord. Dopo 50 chilometri nella Valle di Aravah, nei pressi del Kibbuts (modello di produzione economica comunicatorio sempre più in disuso a favore di un format ad economia di mercato) di Ketura, cambia tut­to. Si svolta a sinistra e ci si inerpica per la prima salita di 6 chilometri al 7%. Da qui è tutto un leggero saliscendi che porta all’erta finale. Roba da motori potenti in grado di sprigionare tanti watt sulle strade assolate, larghe e a zero traffico delle montagne di Eilat.
Gareggiando si va a lambire il canyon di Ein Avdat, ora Parco nazionale, l’essenza aspra del deserto sembra quasi attenuarsi per un attimo. Qualche pal­ma, all’inizio, piccole cascate d’acqua sorgiva, poi si incontrano alcuni stambecchi piuttosto smunti. Fino a imbattersi nei cespugli di tamerischi, la pianta che Abramo piantò a Bersabea tra i Filistei per dire che quella terra apparteneva a Dio, il quale l’avrebbe data ai suoi discendenti.
Mentre si pedala, nei chilometri finali, si può scorgere chiaramente la barriera costruita dagli israeliani, completata sette anni fa, per evitare l’immigrazione dall’Egitto, e dal continente africano in genere. Si tratta di un manufatto me­tallico, che ha richiesto un importante sforzo di ingegneria, che si inerpica sulle montagne e scende nelle depressioni. Un’opera imponente, alta 5 metri e che si sviluppa per 245 chilometri lun­go bordo del Paese.
In quest’area di confine sono molte le zone di interesse militare e l’intelligence vigila discreta. Esistono le torrette di osservazione: apparentemente ab­bandonate, ma in realtà presidiate da potenti telecamere di sicurezza ovunque. Le torri sono alimentate da generatori in funzione 24 ore al giorno.
Que­sto è il Paese che potrebbe raccontare storie infinite. Succede, ad esempio, che al termine di una mulattiera sterrata, si possa aprire una vallata con strade perfettamente asfaltate e accessibili solo ai militari. Oltre alle torri di vigilanza ci sono diversi motivi di interesse strategico. In quest’area, tra le montagne di Eilat, passa la pipeline, ossia l’oleodotto che portava petrolio dall’Iran e oggetto di un’importante arbitrato internazionale. L’occhio non è in grado di coglierlo perché l’imponente tubatura, di un metro e 20 di diametro, è totalmente interrata. Nessuno sa quale sia la reale portata in termini di barili al giorno (sti­mati 400), quello che è certo è che l’impianto è al centro di un controverso arbitrato, in Sviz­zera, tra Iran e Israe­le che ha visto quest’ultimo co­stretto al pagamento di una cifra miliardaria. Infatti, venne costruito nel 1968 quando i due paesi erano alleati, ma con la rivoluzione del 1979 e la creazione delle Repubblica Islamica la joint venture è cessata. Rimasto in attività, l’oleodotto riceve ora petrolio russo destinato all’Asia: in pratica scorre in senso inverso rispetto al piano originario con immissione nell’oleodotto ad Aschkelon, il successivo caricamento su petroliere a Eilat e di qui verso l’Asia evitando il costoso pas­saggio dal Ca­nale di Suez.
L’arrivo della granfondo a Eilat chiude idealmente un cerchio di 140 chilometri: gli atleti della Israel Cycling Aca­demy la fanno da padrone sotto l’occhio di Ron Baron, il patron, pure lui in gara. Quando arrivi a Eilat ti si presentano diverse opportunità. La città è sul Mar Rosso e quindi molto del po­ten­zia­le non è subito svelato, ma per ve­derlo bi­sogna immergere la testa sott’acqua. La barriera corallina racconta tutta la sua bellezza e i suoi colori. Il mare offre opportunità meravigliose, a partire dall’osservatorio sottomarino, cinque chilometri a sud della città. Per an­darci si passa per alcune aree di transito dove si notano migliaia di auto parcheggiate. Sono quelle che arrivano dal far east, stoccate qui e pronte a ri­partire per i Paesi limitrofi. L’osserva­to­rio è un tripudio di colori, pesci di ogni forma e coralli. L’ina­spet­tato spettacolo è quello di trovare una porzione di Egitto in Israele. In questa piccola parentesi periferica si possono inoltre trovare centri con i delfini e parchi con tartarughe gigantesche. Così come l’acquario con centinaia di specie differenti di pesci, compresi gli squali. È un luogo dalle mille sorprese con va­sche di acqua densamente salata, la stessa del Mar Morto, per il benessere. Un’arte dolce che in Israele hanno sa­puto valorizzare per riuscire, come sempre, a sorprendere.

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