Scripta manent
Merckx, l'antologia

di Gian Paolo Porreca

Compie sessanta anni, nato a Kiezegem, nel Brabante, il 17 di questo mese, Eddy Merckx. Sessanta anni, l’età per pedalare correttamente ancora, alla Gran Fondo Felice Gimondi, a maggio scorso, ad esempio: 240° all’arrivo, nel percorso “corto”. (Con un sorriso per tanti versi malinconico, per inciso, a pensare che nel percorso cosiddetto “lungo”, quello competitivo, il primo arrivato sarebbe stato impietosamente Raimondas Rumsas).
Sessanta anni, Merckx, e sia pure. Ma guai a dircelo, a darcelo vecchio, Eddy: sarebbe la fine morale, sarebbe togliere lo spirito vitale, ed anche l’estetica, alla nostra incrollabile ciclosofia.

Ci chiedete, voi ragazzi che il Giro d’Italia ultimo l’avete visto diviso tra Savoldelli e Basso, Cunego e Di Luca, chi fosse Merckx.
Ci chiedete chi siano stati, una buona volta, i Beatles. Merckx è stato un’idea, un concetto di ciclismo assoluto a tutte le ore ed a tutte le latitudini: dalla Freccia Vallone del ’65, la sua gara di esordio, al Circuito dei Paesi di Waes del ’78, sua ultima corsa. È stato il vertice della scrittura in bici, da narratore senza confronto, in pianura in salita a cronometro, nelle corse in linea e nelle corse a tappe, fossero di sette giorni o di tre settimane, è stato ovunque urbi et orbi il non plus ultra di dove ci fosse ciclismo. Dalle sette Milano-Sanremo, dalle cinque Liegi-Bastogne-Liegi, dalle tre Parigi-Roubaix vinte, poniamo, fino a quel record dell’ora siglato a Città del Messico ’72. Dai cinque Giri d’Italia ai cinque Tour de France, ai tre Campionati del Mondo, ai quattro Giri di Sardegna... Merckx, a sessanta anni, resta ancora una antologia epica da recitare a memoria: come i versi di Omero, al liceo classico di una volta.
E guai ad aprirla, che non ne andreste più via, per esigenza di nostalgia.
E quasi vorremmo presuntuosamente che conoscerlo a menadito fosse un esame da scuola dell-obbligo - una maturità -, per avere accesso al ciclismo parlato.

Ma dove andate, se a bordo non avete il ricordo di quella Milano-Sanremo del ’66, quando l’esordiente ragazzo belga della “Peugeot” folgorava il malcapitato Adriano Durante? O senza quella settima “Sanremo” del ’76, fine carriera, maglia Molteni di Arcore - quando Arcore ispirava un plebiscito e non una scelta di campo - , con il dubbio del levare o meno tutte e due le mani dal manubrio, per il sigillo di una gloria che in un palmo solo non ci stava intera? Quel Merckx, ed è qui la grandezza estrema, che scrive la sua storia e la storia degli altri.

Merckx ed il Block Haus e le Tre Cime di Lavaredo e il Tourmalet. Merckx e Vittorio Adorni. Merckx e Felice Gimondi, che senza di Eddy sarebbe stato meno Felice certo. Merckx e Luis Ocaña e la tormenta sul Col de Mente. Merckx e Gianni Brera che al Giro ’67, sul Guerin Sportivo, avrebbe sentenziato: «quel belga lì arriverà sulle Dolomiti, ma solo sulla “1300” della squadra».

Merckx, e la forza immensa del saper piangere, al Giro ’69, il mattino funesto del doping di Savona, quando gli avvocati salvatutti nel ciclismo non li avevano inventati ancora. Merckx, e gli sprint che tirava a Guido Reybroeck, dimenticando talora di farsi da parte prima del traguardo.
Merckx, interrogare per credere, che era il più bravo in tutte le materie, ma che l’impresa più incredibile l’avrebbe compiuta in discesa. Scattando in partenza - pronti e via - nella Orcieres Merlette-Marsiglia, al Tour ’71, ancora ferito dal successo clamoroso ottenuto il giorno precedente da Luis Ocaña. Un elogio della fantasia, quella fuga fino all’arrivo, con Marinus Wagtmans, Gerard Vianen, il nostro Luciano Armani, vincitore poi al traguardo, di una inezia...

Il gruppo dei migliori sarebbe arrivato a tre minuti e mezzo Tour andava fuori tempo massimo. E la Tv, quel giorno, cominciò sorpresa a corsa finita. Gli uomini - quegli uomini - erano fuggiti e già arrivati.
Merckx primissimo, nel porto franco del ricordo, senza la mera formalità della vittoria. Merckx, i suoi sessant’anni ed i migliori giorni della nostra vita.
E quelle immagini, sulle pareti della memoria, che risorgono ancora, quando torna giugno, come il glicine della casa di campagna.

Gian Paolo Porreca,
napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare,
editorialista de “Il Mattino”
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