Dainese, quando il "Daino" diventa tigre

di Pier Augusto Stagi

Più che un daino una tigre. Scattante, potente e resistente. Soprattutto inaspettata e spietata, su quel traguardo tricolore di Reggio Emilia, dove il nostro simbolo è nato e dove il nostro movimento ciclopedalatorio ha ritrovato la via del gol e della vittoria, con una volata mozzafiato. Boom!
Più che un daino una tigre. Che osserva la preda, che si scruta attorno so­spettosa, con un mondo che guarda e­sta­siato a cotanta bellezza. Più che un daino è Alberto Dainese, da Abano Ter­me, velocista padovano della DSM, che ha regalato il primo hurrà all’Italia del pedale nel Giro appena concluso. È stato lui ad aprire le marcature. È stato lui a tirare su per primo la testa, dopo aver tirato volate al suo capitano Ce­es Bol, che di sprint non ne ha az­zec­cato uno. Quando gli si è presentata l’occasione, non si è fatto né aspettare né tantomeno attendere. Ha tirato dritto, potente come pochi, fulmineo come nessuno, tanto da lasciare di stucco un incredulo Fernando Gaviria, che ancora oggi non crede come abbia potuto una pantera come lui farsi beffare da un daino.
Una volata magistrale a Reggio Emilia, proprio nella città del tricolore per il primo successo di un “azzurro” al Giro d’Italia: al giorno 11.
«Adesso che la giostra si è fermata, adesso che è tornata la quiete, mi ren­do conto di quello che sono stato capace di fare - ci racconta Alberto, velocista di professione, anche se a prima vista pare poco sprinter, per quel suo modo compassato di misurare le parole ed esprimerle -. E dire che non avevo dormito be­ne quella notte, sembrava andasse tutto storto e lo sprint doveva farlo il mio compagno Bol. Poi nel finale di tappa mi ha detto: “vai tu Al­berto. Provaci”. Io ci ho provato, con tutto me stesso, con tutta l’adrenalina nel corpo e ho fatto quello che ho fatto».
Li ha messi tutti in fila, per una foto ricordo che è tutta un programma: ba­sta dare una scorsa all’ordine di arrivo: Gaviria, 49 vittorie; Consonni, solo 1 su strada ma oro olimpico a squadre dell’inseguimento; Demare, 87; Ewan, 57; Cavendish, 160.
«E la notte dopo la vittoria non sono riuscito nemmeno a chiudere occhio, tanto era l’adrenalina, lo stress e l’emozione per una vittoria che conta, che fa davvero curriculum. All’ultima curva non ho frenato, volevo arrivare il più avanti possibile, ho visto che avevo un bello slancio e non mi sono più fermato nella rimonta. Testa bassa e pedalare: non ho pensato a niente. In quei mo­menti non hai tempo per pensare, ma solo di pedalare a tutta, fin che ne hai».
Non aveva mai vinto in Italia il ragazzo di Abano: lo ha fatto a 47,015 kmh di media - decima tappa in linea del Giro più veloce della storia -, lo ha fatto a 24 anni, 1 mese e 23 giorni, italiano più giovane a vincere dai tempi di Ciccone 2016. Il tutto a oltre 75 all’ora.
«Niente accade per caso», ha sussurrato Alberto da Abano Terme, diplomato all’istituto tecnico Severi di Pa­do­va, quel giorno a Reggio Emilia quando in volata è stato pilotato addirittura da Romain Bardet, il francese uomo Dsm per la classifica generale, che poi un malanno fisico ha costretto al ritiro: «Per me è stato un onore averlo al mio fianco, avere Romain che mi tirasse la volata. Lo aveva già fatto all’ultima Vuelta: è molto scaltro in situazioni del genere per essere uno scalatore. Pur­troppo, però, pochi giorni dopo è stato messo ko da un problema ga­stroin­testinale. Stava bene e poteva gio­carsi il Giro ma si sa, le corse a tappe sono così: ti logorano lentamente e il conto te lo presentano quando meno te lo aspetti».
«Niente accade per caso», ripete Al­berto ancora oggi, a giorni di distanza, lui che prima di scegliere la bici giocava a basket.
«È uno sport che adoro e ancora oggi seguo - ci racconta -. Tifo per New York e da bimbetto mi sarebbe piaciuto diventare un campione della pallacanestro, ma sono cresciuto troppo poco e così ho scelto il ciclismo, che oggi mi appaga, che oggi è la mia vita. Lo so, alcuni tuoi colleghi mi hanno subito detto che a Reggio Emilia aveva vissuto l’indimenticabile Kobe Bryant (il Co­mune ha dedicato una piazza a lui e alla figlia Gianna). Per me era un ido­lo. Ma se è per questo a Reggio ha giocato anche Tomas Van der Spiegel, og­gi numero uno della Ronde, del Giro delle Fiandre: nulla succede per caso… Come sono? Timido, anche nei festeggiamenti mi sono un po’ trattenuto, ma poi gli abbracci con i compagni mi han­no sciolto e abbiamo fatto festa. Sem­pre con misura, sempre con garbo: io sono così. Non amo stare troppo al centro dell’attenzione».  
Alberto ha due sorelle ed è il primo ciclista della famiglia: «Da Under 23, nel 2019, ho vinto il campionato europeo. Ma le prime due stagioni da prof sono state parecchio difficili - spiega -. Non mi veniva più naturale niente, mi ero scoraggiato e avevo perso la fiducia nelle mie possibilità. Ora però questa vittoria mi ha dato energia e mi ha reso più consapevole dei miei mezzi, di quello che posso fare, anche se non so francamente che tipo di corridore pos­so essere, che tipo di corse possa vincere. Il ciclismo l’ho scoperto quando re­stavo dai nonni nel mese di maggio e al pomeriggio si vedeva sempre il Giro d’Italia alla televisione: per me il solo correrlo era un obiettivo».
Poi gli ricordano che nelle categorie giovanili lo chiamavano il Cavendish italiano, ma il ragazzo di Abano, precisa: «Mark è indubbiamente forte e io di lui ho solo forse i capelli - dice -. I miei riferimenti? Forse i due migliori della storia sono Cipollini e Petacchi. Due velocisti italiani, due supereroi».
Daino ha un passato nel cross e in pi­sta («in questo caso, soprattutto per allenarmi»), già prima di sbarcare alla Dsm era “emigrato” all’estero tra i di­lettanti, alla Seg Racing Academy: «Però prima ero stato alla Zalf, che è probabilmente la squadra più forte di tutte, la più attrezzata e strutturata, quella che ha più storia. Se sono quello che sono, parte del merito è loro, della famiglia Lucchetta, di Egidio Fior, di Luciano Rui e Gianni Faresin. Con lo­­ro ho imparato tanto, prima di mettermi in gioco. Noi italiani siamo un po’ “lamentini”, ma il nostro ciclismo non è morto. È una questione di cicli. Ni­bali è tanta roba, non è facile trovarne un altro così: quanti ce ne sono nel mondo? Però guardiamo il bicchiere mezzo pieno: abbiamo vinto 4 europei di fila, due Mondiali a cronometro con Ganna…».
Daino amava i motori ma adesso sogna di volare…
«Magari un giorno prenderò il brevetto per gli ultraleggeri. Mio nonno è sta­to aviere. Mi hanno fatto notare che amo il volo e le volate… cosa posso dire? Niente accade per caso».
Come un daino che si fa tigre.

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