Rapporti&Relazioni
Patrimonio Cunego

di Gianpaolo Ormezzano

E’ giusto avere paura per Damiano Cunego, paura che lo si sommerga di attese, che gli si facciano firmare troppe cambiali? Giusto sì, se si pensa a quale digiuno siamo stati, noi italiani ciclofili, costretti per anni e anni: abbiamo da questo punto di vista tutti i diritti e quasi nessun dovere. Giusto sì, se si pensa che Cunego ha la classe naturale e ha il fisico (neanche troppo artificiale, cioè da costruzione, da ipertrofia muscolare eccessiva). Poi ha pure la pulizia mentale, originata dal retroterra giusto, di famiglia e di costumi. Infine, non ha nessun handicap da ingenuità giovanile o, diciamo, innata. La sua gestione nel Giro d’Italia 2003 della rivalità con Gilberto Simoni è stata semplicemente perfetta, da atleta vero e da marpione sagace.

Giusto anche se si esamina la faccenda da un algido ma rigoroso punto di vista tecnico: l’anno scorso lui ha vinto bene e ha vinto abbastanza, o moltissimo se si pensa a chi Cunego era, anzi non era, all’inizio di una stagione. Secondo noi poteva anche andare al Tour, come un certo Gimondi nel 1965, quando peraltro i giovani a parità di età anagrafica erano fisiologicamente meno giovani di adesso. Secondo me gli ha fatto bene la Vuelta, dove tutto è stato fuorché un piccolo principe: a proposito, la definizione piace, è molto usata, è persino bella, importante è che lui non se la senta troppo addosso, e non ci creda per nulla. La Vuelta gli ha dato la rifinitura diciamo oscura, gli ha fatto capire che la vita in sella è dura anche quando si pedala portando la gloria sulla canna del telaio: vero che chi fa il ciclista lo sa, lo deve sapere, ma vero anche che Cunego sin lì aveva goduto di uno stato di grazia che poteva funzionare da allucinogeno ammosciante, da anestetico, da tranquillante.

Giusto in tutti i sensi, lo pensiamo e ce lo certifichiamo dentro a mano a mano che andiamo avanti nelle ipotesi sul personaggio. Noi, e noi con lui, non possiamo permetterci di non spingere al massimo le speranze, di non coltivare le attese. Perché lo sport italiano è ad una svolta secondo noi epocale, e Cunego (noi con lui) non solo può approfittarne, ma deve approfittarne. Anzi, non può esimersi dal combattere una certa battaglia.
In parole povere, utili per dire crudamente della ricchezza altrui, lo sport italiano è sul punto di essere sommerso tutto dal calcio. Di essere sbattuto via, messo da parte, schiacciato. La svolta televisiva del digitale sembra fatta apposta per ridurre all’immobilità da poltrona di casa gli italiani tutti: che così, perfettamente rimbecilliti, si consegneranno bovinamente alle suggestioni della pubblicità, del consumismo, della politica, lavorando il giusto per poter comprare l’apparecchio nuovo, il decoder, e pagare l’abbonamento, senza spese superflue in giornali seri, riviste valide o addirittura libri.

Presto il calcio denuncerà un suo stato di ulteriore crisi economica, una sua necessità di denaro fresco, e questo automaticamente procurerà la “chiusura” di tutto il resto dello sport, per mancanza di fondi: visto che sempre e comunque, direttamente o indirettamente, il calcio ottiene ciò che vuole. Filosoficamente ci sarà persino chi interpreterà la cosa in maniera positiva: da qui lo show calcistico con tutta la sua opulenza (sempre pagata a gioco breve o lungo dal contribuente), da lì il resto dello sport ridotto a mera pratica salutistica, in piena economia. Ci sarà ancora lo sport dei motori, questo sì, ma con l’uomo sempre meno importante, con la macchina che fa tutto lei, presto forse con piloti robot.
Il ciclismo è l’unica speranza contro il calcio. Stiamo parlando dell’Italia, sia chiaro. Altrove - non dovunque, ma in tanti paesi che pure sembrano simili al nostro - c’è una cultura sportiva e non solo che lascia intravvedere altre soluzioni, quando addirittura non permette al calcio di dominare in esclusiva e non concede alla televisione tutto lo strapotere che si è presa o le hanno dato (stessa cosa per il bipede sottomesso) in casa nostra.
Il ciclismo in Italia ha valenza di tradizione, ha zoccolo duro popolare, ha poetica percepibile e percepita delle nostre masse altrimenti sclerotizzate. Lo si è constatato con Pantani, che pure non aveva nel dna i fortissimi tratti di simpatia innata che Cunego possiede eccome. Il ciclismo accompagnato e anzi vissuto sentimentalmente può essere l’ultima occasione, la sola residua regola per sopravvivere: ci sono ancora abbastanza italiani per applaudire un Cunego come se fosse, dicamo, un Cassano, traendo da questa pratica sentimentale valori sicuramente superiori a quelli di genesi calcistica. Nessun altro sport in Italia può salvare lo sport dal calcio, ecco il punto. Tanto per dire: la scherma ci dà medaglie olimpiche in serie, lo schermitore Montano vince l’oro di Atene, capisce tutto e per introdursi nell’opinione (beh) pubblica italiana deve accoppiarsi con la donna - Manuela Arcuri - che è stata sin lì di un celebre calciatore. Conta anche la luce indiretta. Senza Francesco Coco, Manuela Arcuri era meno “bella”; senza far dimenticare Francesco Coco, Montano era meno “popolare”. Se esiste questo tipo di dipendenza per cose minime, figuriamoci per cose grandi, quelle dove comandano il business, il denaro.

Ripetiamo: soltanto il ciclismo può salvare lo sport dal calcio, cominciando si capisce con il salvare se stesso. Soltanto Damiano Cunego può dare al ciclismo questa forza. Vorremmo sbagliarci e dover considerare per questo discorso, per questa tesi, per questo appello anche Ivan Basso: ma per ora ci sembra di avere un solo ariete da usare.
Spiacenti per Cunego, ma dobbiamo usarlo. A pro non soltanto del ciclismo. E sperando che anche lui non venga omologato da troppe apparizioni televisive, da troppe ospitate. Dobbiamo usare Cunego e anche istruirlo perché, la volta in cui la televisione gli dà l’audience massima, lui sgozzi sul posto il telecronista o anche l’ospite “extra” che gli chiede per quale squadra di calcio tifa e quale giocatore sente più vicino a lui. È più difficile che vincere il Tour de France, ma è anche impresa più suggestiva. E se portata felicemente, e pazienza se sanguinosamente, a termine è impresa più grande.
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