Alaphilippe, un signor campione del mondo

di Pier Augusto Stagi

Un campione del mondo. Questo è un campione del mondo. Questa cosa l’avremmo detta chiaramente anche per Wout Van Aert, che mai come quest’anno ha fatto vedere cose mirabolanti. L’avrem­mo detto anche per Tadej Pogacar, se non fosse stato ripreso. Eravamo pronti a dire lo stesso di Ja­kob Fulgasang e Primoz Roglic: insomma, lì davanti, in questo mondiale italiano, c’era il meglio del ciclismo mondiale, e chiunque avesse chiuso il di­scorso in proprio favore, non ci avrebbe lasciato con l’amaro in bocca.
La vittoria di Julian, poi, è di quelle sontuose, aspettate da qualche anno. Ha il fisico da campione del mondo, Ju­lian. Ha temperamento, carisma, doti e talento per essere simbolo del nostro movimento. In questo, forse, anche più di Van Aert, che in ogni caso è un corridore pazzesco.
È un oro anche per loro: per Marco Pa­varini e Marco Selleri, compreso Raffaele Babini, che con la regia del presidente federale Renato Di Rocco, hanno messo in piedi una rassegna iridata da record. Per certi versi Stefano Bonaccini e la Nuova Ciclistica Placci 2013 sono stati proprio come Julian Alaphilippe: uno scatto e via. E come qualcuno ha sottolineato, questo successo è quasi una legge del contrappasso: dopo averlo strappato alla Francia (dipartimento della Alta Saona nella regione della Borgogna, ndr), il Mon­diale gliel’abbiamo restituito.
Ma torniamo a Julian. A “Loulou”, al mo­schettiere o D’Artagnan che dir si voglia. Il suo è stato un gesto da fuoriclasse. Un colpo solo e i giochi sono fatti. Pochi metri, pochi secondi per lui diventano fortezza inespugnabile. Al­le calcagna ha gente come Van Aert e Ro­glic, Fulgsang, Hirschi e Kwiat­kowski, mica pizza e fichi.
Gesto da fuoriclasse assoluto, il suo, come da copione, perché Julian è abituato a questo genere di cose. Lui è un corridore che si esalta ed esalta nelle grandi occasioni. Capace di accelerazioni repentine e improvvise che hanno il potere di annichilire l’avversario, chiunque sia. Tutti sapevano che il francese avrebbe attaccato, nessuno è stato capace di stargli a ruota, nemmeno Van Aert - il grande sconfitto - che come Julian sa esaltarsi in certe situazioni. Un’azione esplosiva su Cima Galli­ster­na, in un tratto al 15%. A 28 anni, il campione più amato di Francia riporta in patria il Mondiale 23 anni dopo Brochard 1997. Volata amarissima per il secondo posto a Van Aert a 24” su Hirschi, ancora una grandissima conferma, poi Kwiat­ko­w­ski, Fuglsang e Roglic. C’era da immaginarselo su un tracciato scelto a regola d’arte dal no­stro Ct Da­vide Cassani: su questo percorso non avrebbe vinto un pinco palla. Non si sarebbe vestito con i colori dell’arcobaleno un signor nessuno. Basta dare una scorsa all’ordine d’arrivo per capire quanto sincero e attendibile è stato que­sto percorso. Cinque dei pri­mi sei vengono dal Tour: l’unico “esterno” è Fuglsang, uno dei grandi nomi per il Giro d’Italia scattato proprio in questi giorni.
Una delle frasi che accompagnano la storia di questo ragazzo estroverso e generoso è: «Ho la gioia di vivere in me». Lui che da ragazzo non ha certamente avuto un abbrivio in discesa, ma non ha mai perso il suo entusiasmo. Ha fatto l’operaio in un negozio di bici dai 16 a 18 anni, poi ha militato nei corpi militari a 1200 euro al mese.
«Questa è la corsa dei sogni - dice commosso LouLou, compagno di Ma­rion Rousse, ex ciclista ora commentatrice tv -. Vincere il Mondiale era il più grande obiettivo della mia carriera. Ora voglio vederla bene questa maglia sulle mie spalle».
Una maglia che risplenderà sulle spalle di questo ragazzino fattosi uomo e che fu giudicato troppo poco dotato per frequentare il liceo, ma anche poco do­tato fisicamente per essere ammesso ad una scuola di ciclismo e quindi finito a 16 anni a montare e smontare bici e mo­torini in un istituto professionale perché così «la smetti di cazzeggiare», come tuonava mamma Catherine che l’avrebbe preferito garzone di bottega e non certo corridore. «Ma perché, è un lavoro?...», chiedeva.
La fortuna di Julian è che sulla sua strada trova non solo ostacoli, ma an­che chi decide di spostarglieli per farlo passare. Uno di questi è suo cugino Franck, allenatore e padre putativo. Ju­lian viene da Saint Amand Mon­trond, comune del dipartimento del Cher, al centro quasi esatto della Fran­cia. Ar­riva da una famiglia che non ha legami col ciclismo. Il padre Jacques, ex direttore d’orchestra, è mancato lo scorso mese di giugno e gli ha trasmesso la passione per la musica. Fin da bambino Julian ha iniziato a picchiare sulla batteria. Da piccolo era un sistema per sfogare la sua carica vitale, ora uno strumento per rilassarsi: «Sono sempre a blocco - ha avuto modo di raccontare - e ogni tanto mi serve una pausa. Vado a orecchio, da giovane ho studiato solfeggio ma non mi piaceva, non mi di­vertiva».
Catherine, invece, ha sempre pensato a fare la casalinga e la mamma visto che oltre a lui ci sono Brayan, che ha 23 an­ni e corre tra i dilettanti («lui è un velocista, il sogno è di correre un giorno nella stessa squadra»), e Leo, 15. Il primo contatto con la bici avviene con la mountain bike. «Per me era un di­vertimento. Un giorno papà mi iscrisse in un club di Montluçon e ho cominciato ad allenarmi - racconta -. La prima corsa a 13 anni, con una bici vecchissima. Ricordo anche quanta fatica facevano i miei genitori per trovare il denaro per comprare i ricambi... certe cose non si dimenticano. Da junior mi sono dedicato al cross: vinsi la Coppa del Mon­do e l’argento mondiale. Il cross è stato la mia scuola: lì ho imparato a sop­portare la grande sofferenza e il dolore».
Oggi ha imparato anche a divertirsi e a vincere divertendo. Per chi lo ama è un fenomenale dispensatore di gioia.

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