
di Pier Augusto Stagi
Entrambi sono nati a Leggiuno, in provincia di Varese, solo che uno ha scelto un’isola, l’altro di isolarsi. Uno è Gigi Riva, l’altro Silvano Contini. Uno è per tutti “rombo di tuono”, l’altro il “corridor cortese”, che aveva così poco del corridore da sembrare quasi sempre fuori posto. Di Gigi Riva, fortuna sua e nostra, sappiamo quasi tutto; di Silvano Contini si sono perse quasi le tracce nonostante sia stato un ottimo corridore, «non certo un campione però, quello no, non lo sono mai stato e non mi sono mai considerato tale», dice con quel sorriso gentile da eterno bravo ragazzo.
Vent’anni senza bicicletta, per superare i venti trascorsi a pedalare come un matto, tredici dei quali da professionista. «È così, non sono salito più in sella ad una bicicletta per vent’anni - ci racconta Contini, classe ’58, vincitore di una Liegi nell’82 e sempre in quell’anno terzo al Giro -. Ero talmente nauseato che non ne ho voluto più sentir parlare. Le corse però le ho sempre seguite, il ciclismo è stato davvero la mia vita, ma di fatica ne ho fatta talmente tanta che per un po’ di tempo, meglio dire tanto tempo, non ne ho più voluto sapere. Oggi sono tornato a pedalare: piccoli giretti, di una sessantina di chilometri, proprio per stare in movimento, con il piacere di pedalare in compagnia e in mezzo alla natura».
Silvano Contini, dopo una brillante carriera nelle categorie giovanili, passò professionista giovanissimo, a soli 19 anni, esattamente dopo aver sostenuto l’esame di maturità e conseguito il diploma di ragioniere, cosa che per un corridore, a quei tempi, era davvero una rarità.
«Mi vide Giancarlo Ferretti, uno dei più grandi tecnici della storia del ciclismo e mi volle con lui alla Bianchi-Piaggio, che negli Anni Ottanta era davvero uno squadrone, un team di riferimento nel mondo. Io dovevo costituire il futuro, da me si attendevano tanto, forse troppo, ma sono felice di quello che sono riuscito ad ottenere».
Tra le cose che riesce ad ottenere c’è la Liegi-Bastogne-Liegi, una di quelle corse che valgono una carriera e per questo corridore varesino la carriera viene marchiata in maniera indelebile dalla “doyenne”.
«Stavo davvero bene quel giorno. In verità stavo andando forte già da inizio stagione e sono andato forte tutto l’anno - ricorda -. Alfons De Wolf volava, Steffan Mutter e Claude Criquellion erano due ossi duri, però quando nel finale mi sono trovato solo con loro ho capito che potevo fare il colpo. Sulla carta sapevo di essere il più veloce. Dovevo solo essere bravo a non sprecare energie preziose, e allora sono rimasto al coperto fino all’ultimo, sempre a ruota di De Wolf che era in giornata di grazia. Nella volata sembrava cosa fatta per lui, ma non aveva fatto i conti con me che a 40 metri gli sono uscito di ruota come un lampo e l’ho passato a doppia velocità. Lo ricordo benissimo quell’attimo che mi ha proiettato in una sorta di eternità sportiva».
Colpo da maestro, per uno che è ragioniere, ma che sa soprattutto “limare”, che in gergo ciclistico significa sfruttare a regola d’arte il lavoro degli altri, lasciar fare, succhiare le ruote, andare dolcemente di lima, cosa che per uno che da quando si è ritirato ha rilevato e mandato avanti la falegnameria di famiglia è quasi un segno del destino.
«Oggi faccio quello che mi piace - prosegue Contini nel suo racconto -. Non pensavo nemmeno che mi potesse piacere così tanto lavorare il legno, ma con questo lavoro ho trovato davvero il mio equilibrio. Un mestiere che amo e mi consente di stare vicino alla mia famiglia, a mia moglie Bibiana e ai miei tre figli Andrea, Moreno e Romina, che sono la cosa più importante in assoluto. Questa è stata la mia nuova squadra per tutti questi anni. I corridori generalmente sono dei gitani, gente inquieta che non sa restare a casa, io in una realtà senza corse invece ci sto benissimo».
Un uomo che sa essere di compagnia, ma predilige e ricerca anche la solitudine.
«Ogni tanto la cerco, ne ho bisogno come l’aria, mi aiuta a pensare. No, non sono un lettore. È una delle cose che mi viene rimproverato in famiglia. Pensi che ho tre figli e tutti e tre laureati. Spesso dico: la voglia di studiare che io non ho mai avuto l’ho lasciata tutta a loro. Andrea, che ha provato anche a fare il corridore, oggi è laureato in fisica e matematica. Moreno è un tecnico radiologo e Romina si è laureata anche lei. Io sono un ragioniere e devo dire che questo pezzo di carta, per mandare avanti la mia falegnameria, oggi mi è tornato molto utile».
Poteva tornargli molto utile anche vincere un Giro d’Italia, che per una questione o per l’altra gli è sempre sfuggito di mano: 5° nel ’79, 4° nell’81, 3° nell’82, 7° nell’85…
«Ero un buon corridore, ma non un campione. Ho avuto il piacere di correre contro atleti eccezionali, alcuni dei quali autentici fuoriclasse come Bernard Hinault, Francesco Moser e Beppe Saronni. Non era facile vincere un Giro d’Italia in quel periodo, io ci sono arrivato vicino e mi è sufficiente. Alla fine è stato giusto così. Forse avrei rovinato qualche albo d’oro, come alcuni corridori sono riusciti a fare. Lo dico con assoluto rispetto: anche un corridore molto forte e bravo come Franco Chioccioli, ha forse ottenuto troppo per le sue capacità. Possiamo dire che ha contribuito a rovinare l’albo d’oro. Io penso che certe corse le debbano vincere solo certi corridori. È chiaro che Franco non ha rubato nulla, ma se avessi vinto un Giro, anch’io nell’albo d’oro di questa corsa sarei stato un intruso. Molti, in quegli anni, hanno messo sul banco degli imputati Ferretti. Secondo loro “Ferron” puntava troppo alle classiche e alle tappe dei Grandi Giri, anziché provare a vincerli. Io non sono d’accordo. La Bianchi era una grandissima squadra fatta di grandi corridori, ma nessuno di noi era davvero un campione. Sono convinto che “Ferron” abbia ottenuto con noi il massimo che potesse ottenere».
Ferretti, per tutti il “Sergente di Ferro”, per la sua severità, il suo rigore, la sua ferocia agonistica, è stato in ogni caso messo in ginocchio da Silvano Contini.
«Primo anno da professionista, 1979, si corre il Giro del Lazio e io colgo la prima vittoria nella massima categoria. Nel finale stacco nientemeno che Hinault, Raas e Knetemann e una volta tagliato il traguardo a braccia alzate vedo “Ferron” in ginocchio che piange come un bambino. Quanti possono dire di averlo visto così? Il momento più difficile con lui? Sul Macerone. Hinault attacca e io morto mi fermo a bordo strada: non ce la faccio più. Mi siedo su un paracarro. Per me il Giro è finito lì, Ferretti non la prende benissimo. Sento quello che in vita mia non avevo mai sentito prima. Risalgo in bicicletta, arrivo al traguardo, ma il mio Giro è perso…».
Con Ferretti un rapporto di odio e amore.
«In verità lui mi voleva molto bene, anche se era tremendamente severo. Lui voleva vincere sempre, ma spesso questo non era possibile. Cosa non gli perdono? Quando decise di prendere De Wolf in squadra e portò all’interno di un gruppo affiatato e rodato il blocco belga. Con questa mossa ruppe in maniera definitiva il meccanismo sofisticato di un team che aveva fatto storia. In quel momento la mitica Bianchi-Piaggio terminò in pratica di esistere. L’arrivo del clan belga fu fatale per quella squadra».
Esce in bici di rado, qualche giretto, ma di corse non se ne perde una.
«Speravo tanto in Fabio Aru, ma negli ultimi anni mi ha deluso parecchio, anche se spero possa riprendersi - dice -. Adesso seguo Alessandro Covi, un ragazzino che ho visto crescere, ha una grande classe e un grande talento. Corre per la Uae Emirates di Beppe Saronni, e spero possa diventare un campione. L’ultimo corridore che mi ha emozionato? Marco Pantani: talento e classe purissima. Di quelli che ho visto io, Bernard Hinault: nessuno come lui. Poi Moser, Saronni e Fignon, ma anche Battaglin, Visentini e Baronchelli. Ecco, Gibì era un talento immenso, ma forse per essere ciclista è stato fin troppo buono, poco cattivo».
Un po’ come Silvano Contini.