Rapporti&Relazioni
Il percorso duro

di Giampaolo Ormezzano

Una delle frasi più divertenti ascoltate durante i giorni iridati di Verona (e della Spagna, e di Freire) è stata questa: il prossimo titolo mondiale verrà assegnato sul circuito di Madrid, che sarà per velocisti. Dopo di che c’è stata la volata fra velocisti di Verona 2004, identica anche nei personaggi a quella di Sanremo 2004.
Personalmente seguiamo il Mondiale da oltre mezzo secolo, e quasi sempre abbiamo visto l’assegnazione della maglia iridata alla fine di una prova molto facile, anche quando si è disputata nel freddo del nord o nel gelo del sud. Il quasi riguarda due sole edizioni: quella del 1980 in Francia, a Sallanches, sul circuito impropriamente definito del Monte Bianco, comunque duro davvero, e infatti vinse Hinault francese con 1’11” su Baronchelli italiano altro duro, e quella in Norvegia a Oslo nel 1993: ma allora si trattò di difficoltà dovuta al clima perfido, alla strada molto scivolosa, e comunque vinse un certo Armstrong, statunitense del quale si diceva un gran bene, con 19” su un certo Indurain, spagnolo che da tre anni aveva preso l’abitudine di vincere il Tour de France e che in quell’occasione fece probabilmente ammalare l’altro di febbre gialla.

Sul perché si vari ormai scientemente un percorso facile e intanto si cerchi di dire che è difficile ci siamo spesso indagati, specie quando abbiamo pensato che tutti o quasi si fossero consorziati in una compagnia della bugia: perché i tecnici e anche i corridori anno dopo anno visionavano il percorso e dicevano, sempre, che era duro. La salita era soltanto lunga un metro e venti, e con pendenza dello zero virgola zero uno per cento? Sì, d’accordo, ma ripetendola quindici o venti volte si sarebbe fatta sentire eccome.

Questa della ripetizione che incide sulle gambe e fa la selezione è una delle massime bufale, peraltro sacralizzate dalla frequentazione periodica e puntuale di essa da parte di quasi tutti, per creare una vigilia intensamente cronistica nonostante le smentite storiche. Perché la ripetizione non significa nulla, se la fatica, quando pure esiste, viene neutralizzata dal recupero in discesa e in pianura, quando le tossine vengono lavate o se preferite levate. La gara di Verona ha visto il gruppo procedere per sedici dei diciotto giri ad andatura quasi ridicola, come neanche le donne il giorno prima. E i sedici passaggi sulla “vetta” delle Torricelle non hanno inciso per nulla. Molto meglio il Poggio per la Sanremo, anche se non è l’ideale: di solito prima c’è stata battaglia, e l’ascesa è ben più seria che quella alla collinetta di Verona. Ma il fatto è che nessuno presenta la Sanremo come una corsa durissima di suo (casomai incide la preparazione ancora sommaria in molti), come invece presenta il Mondiale.
Se si applica la legge delle Torricelle allo sgambettare, come pedalando, di un bambino nella culla, si scopre che lui, sommando tutte le “fatiche” di un giorno, se messo idealmente su una biciclettina in quel giorno si scala lo Stelvio. Ma il bimbetto recupera, e infatti mica si dice che compie quotidianamente una grande performance sportiva, atletica.
Invece i ciclisti sì. Il loro circuito viene presentato sempre come duro. O durissimo. E vedrete che da qui a Madrid qualcuno salterà su a dire che in fondo i velocisti finiranno per patire la somma dei dislivelli, e che insomma non è detto che la corsa iridata sia per loro. È una specie di gioco, ma non ci spieghiamo perché lo si debba giocare.
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Avete notato che ci sono ciclisti che vengono sempre chiamati con nome e cognome, altri che al nome di battesimo non hanno diritto mai? Senza che esista una legge, una regola. Cipollini è spesso Mario Cipollini, Petacchi quasi mai è Alessandro Petacchi. Basso è sempre Ivan Basso, e non si dica che è per non confonderlo con Marino Basso, uomo degli anni settanta. Invece Cunego è soltanto Cunego, Damiano non viene usato quasi mai. Mentre Simoni è sempre Gilberto Simoni, Garzelli non è mai anche Stefano.
Pure all’estero funziona così: Anquetil era Anquetil, Hinault è stato molto spesso Bernard Hinault. E provate a domadarvi come fanno di nome Jalabert e Virenque. Vero che non lo sapete, o che dovete frugarvi per arrivarci? D’altronde c’erano Bartali e Coppi e c’era Fiorenzo Magni. E Moser è stato anche Francesco più a fine carriera, quando pure si era anagraficamente connotato in pieno rispetto ai fratelli Aldo, Enzo e Diego essi pure corridori ciclisti, che all’inizio, quando magari era molto opportuno fare la distinzione, la precisazione. Non esiste un perché. O forse esiste ma la nostra personale ignoranza non ci permette di rintracciarlo e parteciparlo o confrontarlo con altre spiegazioni. Non pensiamo neppure che c’entri l’opera di qualche guru della comunicazione. D’altronde se questo tipo di guru esistesse, dovrebbe cimentarsi soprattutto sullo pseudonimo, sul nomignolo o sul nome d’arte, che nel calcio brasiliano viene addirittura santificato, tanto è vero che spesso neanche i giocatori ricordano come si chiamano per l’anagrafe ufficiale (non scherziamo: il Garrincha triste e suonato dei suoi ultimi anni si era tutto rintanato dentro il nomignolo, che è quello di un uccellino, e quando gli chiedemmo a Rio de Janeiro di scrivere per esteso il suo nome su una sua foto, esitò a lungo, e si trattava poi soltanto di scarabocchiare Manoel dos Santos).
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Bartali ogni tanto mi diceva: “Non hai idea di come erano importanti i giornalisti nel ciclismo dei miei tempi. Comandavano tutto a tutti. Io fui costretto a lasciare un Tour de France dove quasi dominavo perchè così voleva Giuseppe Ambrosini, in modo che ci fosse via libera in classifica Camusso, torinese, della città del giornale, La Stampa, dove Ambrosini lavorava”. Era una bufala ma Gino era in buona fede. E Ambrosini quasi gradì la cosa, quando gli trasmisi questa leggenda sulla sua potenza. Ambrosini che avrebbe sacrificato tanto della sua autorità ciclistica pur di diventare imbattibile a boccette, sport o gioco in cui frequentava rabbie terribili quando gli accadeva di perdere.
Però questi giornalisti possenti erano scarsi nell’applicare, l’immaginazione ai loro campioni, per creare nomignoli o nomi d’arte che funzionassero alla grande. L’Airone per Coppi fa quasi ridere tanto è stentoreo, e Fausto non voleva saperne. Chissà adesso cosa si inventerebbe un guru della comunicazione. Ma intanto Armstrong è Armstrong, che vinca sei Tour di seguito o che vada sulla Luna (così, per provarci, dite al volo i nomi dei due, il ciclista e l’astronauta). Meglio quello che suonava la tromba, almeno era inconfutabilmente il Labbro, vederlo anzi guardarlo per credere.
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