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QUEI TOUR A SESSA AURUNCA

di Gian Paolo Porreca

Avrà un solo tempo - sarà ancora,  senza annualità,  la stagione del sole - l’estate del Tour del 2019, come fu per quelli del secolo scorso, che ci restano tanto incolpevolmente cari. Come fossero attuali, presenti, co­me tutte le cose che nella vi­ta non avremmo mai visto nè avuto, il Tour de France ave­va, a Sessa, una sua precisa,  indimenticata geografia.
Si tornava dall’inverno, da quell’esilio sentimentale troppo lungo che rappresentava per noi la Città e si conquistava nuovamente la luce - sempre troppo breve - del  Paese. L’estate del sole, noi adolescenti, noi sul ciglio dell’amore, la vivevamo lì. Dopo averla aspettato a lungo, co­me un bacio sempre promesso.
A Sessa, da nonna Rosa, l’estate ed il Tour de France, noi che di ciclismo eravamo malati tutto l’anno, e saremmo dei suoi valori scontrosi restati in fondo vittime, noi la vivevamo su strada e nell’anima due volte. O forse, di più, in un planetario minimo.

Fra Rongolise e Carano, le due masserie di famiglia che rappresentavano il polo Nord e il polo Sud della villeggiatura, lontano dal mare, il nostro cielo di ciclisti a vita - e condannati oltre - disegnava le sue costellazioni sin­golari, arcadiche, tenerissime. Di noi non sorridiamo, non abbiamo che pudore, forse l’onore delle armi, co­me di quella “villeggiatura” anni ’60, senza il richiamo delle paternali, ma con un soffio di libertà ad occhi spalancati. Di noi non sorridiamo, tanto siamo stati trasparenti nella memoria, nè di quelle relative fughe. La geografia, allora, di Sessa, Alto Casertano,  e delle sue frazioni, ciclisticamente rilette.
Potevamo scegliere, inforcata una bici Legnano sport, con il cambio sul manubrio diritto, neanche una “specialissima”, quale tappa interpretare, di quel Tour che era in Francia invece corsa vera. A Carano, sullo stradone di breccia che avevano a stento asfaltato, ed era una traccia dura ma almeno tutta distesa in piano, fra Sorbello e la Stazione di Sessa - Roc­ca­mon­fina, disputavamo le tap­pe di pianura, le lunghe frazioni di trasferimento - di­cevano così, su Lo Sport Il­lustrato - che portavano a Clermont Ferrand ed a Gap, a Le Havre o a Rouen....

E noi che in Francia eravamo stati, ragazzini, al massimo a Parigi, raccontavamo sulla bici in quei pomeriggi straripanti di sole, ed il ri­chiamo della nonna - “ma dove vai con questo caldo?” - ancora nella mente, che non poteva fermarci più, di Annaert ed Everaert, o erano eguali?, di Baffi e Mastrotto, di un polacco naturalizzato francese che si chiamava Graczyk. Fra il bivio sul­l’Appia, attento ai camion, di fronte agli Irace, e la linea ferroviaria dismessa della Formia-Sparanise, fra gli oliveti di Piedimonte e le piantagioni di frutta, fra Cellole e la Domiziana.

Ed a Rongolise, invece, lì dove la masseria dei Della Rosa era a fianco alla Terra del Prete, e dove c’era un contadino prezioso che si chiamava e si chiamerà sempre Vincenzo, a Rongolise, sul declivio delle Toraglie, lì dove la pianura è un’utopia, curve su curve ad incidere la collina, a Rongolise, dove il tempo era più lento a trascorrere, ospitavamo le tap­pe di montagna.
Il Tour de France, quello di Gimondi del ’65, poniamo, si è disputato fra Lauro e San Castrese, senza che Pou­lidor ed Anglade lo sapessero, e Motta ed Adorni sono stati in fuga breve da queste parti, nel nostro animo.
Che fatica, in corsa, a Ron­go­lise, quei tornanti che non erano il Mont Revard della cronoscalata fatidica, ma pu­re erano tornanti senza ritorno, ad ogni tentativo di scatto sui pedali. Noi, che in bici volevamo almeno simulare i primi. Ma che in fondo, sen­za dirlo a nessuno, salendo fra Rongolise ed il bivio per Cupa, preferivamo pedalare da ultimi. E se non proprio ultimi, sudati e sfiniti, almeno distanti dagli altri migliori, come quell’altero corridore spagnolo Fernando Man­za­neque, che andava all’attacco sempre troppo presto, per le cadenze giuste della giornata.

E che, ripreso poi dai campioni, si voltava sdegnoso dall’altra parte, lui che non faceva più la stessa tappa e non viveva più neppure lo stesso amore. Come noi, feriti dall’estate a picco, che re­stavamo a guardare il mare e gli Aurunci, per un desiderio estremo di ombra, dalla par­te opposta della corsa e della vita. Allora, molto prima, o totalmente identici, quanti anni hai?, al Tour 2019.

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