Carboni: «Un Giro per crescere»

di Giulia De Maio

Il mese di maggio 2019 resterà per sempre tra i ricordi speciali di Giovanni Carboni. Al secondo anno tra i professionisti e al suo primo Giro d’Italia, il ventitreenne marchigiano ha indossato la maglia bian­ca di miglior giovane per tre giorni e ha capito che nei prossimi anni potrà giocarsi qualcosa di pesante in una corsa così importante come quella che sognava di disputare fin da bambino.
Non solo ricorderà maggio 2019 per il suo debutto alla corsa rosa, ma anche perché nel gruppo dei big è passato sulle strade di casa, tra due ali di folla che urlava il suo nome. Un’emo­zio­ne incredibile per questo perito agrario, che è stato a un passo dall’appendere la bici al chiodo per indossare la divisa del poliziotto. Quella che ve­ste con or­goglio il suo papà, da cui ha ereditato l’amore per le due ruote.
Cosa ti ha colpito del tuo primo Giro?
«La passione dei tifosi e la grandezza della manifestazione. Dicono che è la corsa più dura del mondo nel Paese più bello al mondo ed è proprio vero. Alla partenza da Frascati con i miei compagni della Bardiani CSF abbiamo incontrato il premier Giuseppe Conte, non è una cosa che capita tutti i giorni. Quest’esperienza mi ha insegnato tan­to, soprattutto a livello personale. Nel­le scorse tre settimane ho imparato co­me gestire le fatiche, quelle di un’intera giornata, non solo le 4-5-6 ore in bici. La fatica di un grande giro non riguarda solo le tappe da affrontare, ma le 24 ore. Dal cibo al sonno, dal recupero ai massaggi, tutto deve essere organizzato per permetterti di vivere al meglio ventun giorni unici e particolari. Il li­vello è altissimo, non si può lasciare nulla al caso».
Il giorno più emozionante?
«Ne scelgo due. L’arrivo a San Giovan­ni Rotondo è stato un segnale importare anche per il futuro perché mi ha detto che posso giocarmi una tappa in un grande giro. Se avessi seguito Fau­sto Masnada, magari le cose sarebbero andate diversamente. Il quinto posto mi va un po’ stretto, ma da quel giorno (e da quante gliene avrà dette il team manager Bruno Reverberi, ndr) ho imparato parecchio. Grazie al vantaggio accumulato dalla fuga di cui fa­cevo parte, è capitata anche l’occasione di vestire la maglia bianca e con quella addosso due giorni più tardi sono passato dal mio paese. Vedere San Costan­zo, in provincia di Pesaro-Urbino, in festa per me è stato magico. Gran parte del tifo è stato organizzato da mio fratello con la morosa Francesca, non pos­so non ringraziarli. Ricevere tanto af­fetto mi ha fatto venire la pelle d’oca e mi ha positivamente sorpreso. Non me lo aspettavo. Salire sul palco a Pe­saro come miglior giovane è stata davvero un’emozione forte».
Quello più duro?
«La cronometro Riccione - San Marino è stata esigente, anche per il clima da lupi che abbiamo incontrato. L’ultima settimana è stata tosta, per tutti, ma non ho mai smesso di provarci. Nella seconda parte di Giro non ho più curato la classifica per cercare di essere protagonista nelle tappe. Con la squadra abbiamo dato il massimo per onorare la corsa e tutti gli sponsor che so­stengono una squadra Professional di giovani italiani come la nostra».
Dopo tre settimane in bici, ora cosa hai voglia di fare?
«Di andare al mare e rilassarmi con la mia ragazza (Arianna Fidanza, ciclista e figlia di Giovanni, maglia ciclamino al Giro 1989, ndr). Mentre io ero impegnato al Giro, lei ha corso delle gare in Cina. Ora ci meritiamo entrambi un po’ di relax sulle spiagge delle Marche dove sono cresciuto. San Costanzo è un piccolo borgo, meno di cinquemila abitanti, nell’immediato entroterra mar­chigiano. Se guardi davanti a te vedi il mare e se ti volti hai dietro le colline dell’Appennino».
Com è avere una fidanzata ciclista?
«A volte un casino perché la vita di un corridore è “fuori dal normale” tra numerosi viaggi e tanti sacrifici, ma in questo caos noi ci capiamo e sosteniamo alla grande. Ho conosciuto Arianna in Nazionale nel 2016, fin da subito si è creata una bella intesa tra di noi. Abi­tiamo insieme in provincia di Bergamo, lei è di lì . Ca­pi­ta di allenarci insieme, anche se abbiamo programmi ed esigenze diverse. Ci veniamo incontro. Quando la vita di coppia è felice, tutto il resto viene più facile».
Ecco spiegato il tuo debole per la maglia azzurra: ti ha fatto trovare l’amore.
«Anche (sorride, ndr). La passione per la bici l’ho ereditata da papà Ivan, che ha corso da dilettante finché a 18 anni ha smesso per entrare in polizia. Oggi più che pedalare come cicloamatore, se­gue me e mio fratello, è un campione nel farci fare dietro motore. Ho iniziato a gareggiare nel 2009 da esordiente, volevo vincere a tutti i costi. Ci riuscii per la prima volta nell’ultima corsa della stagione, tanto che ero dispiaciuto finisse l’anno. Da juniores, nel 2012, mi ritrovai in squadra con Mario Bol­letta, che tutt’ora mi dà consigli preziosi ogni giorno, e approdai nel giro della Nazionale. Vestire la maglia azzura è il massimo, ho provato quest’emozione nelle categorie minori ed è quello che mi ha dato il là per credere che davvero il ciclismo avrebbe potuto diventare il mio lavoro. Ora che lo è a tutti gli ef­fetti, spero di avere la possibilità di indossarla ancora tra i professionisti».
Quando non pedali, cosa ti piace fare?
«Sono appassionato di cucina. Sia a me che ad Arianna piace metterci ai fornelli. Il mio piatto forte? Ari mi chiede spes­so il risotto allo zafferano. Io vado mat­to per il pesce, la frittura in particolare».
Se non avessi fatto il corridore?
«Di sicuro come papà avrei intrapreso la carriera nelle forze dell’ordine. A dir­la tutta ci sono andato vicino. Nel 2017, all’ultimo anno da dilettante, mi ero dato un ultimatum. Ventitré anni è l’età massima per entrare all’accademia militare, entro settembre dovevo presentare la domanda, ma sono arrivati i Re­verberi proponendomi un contratto e così ho fatto il grande salto nella massima categoria».
E proprio papà è stato il più felice di quella chiamata dello zio Bruno.
«Mio padre è la persona che ci ha creduto più di tutti. Fin dalle prime pedalate ha intravisto un futuro che io stesso non mi sarei mai immaginato. Al via del Giro d’Italia era più emozionato e teso di me. Ovviamente devo dire grazie anche a mamma Lucia, che non mi ha mai fatto mancare il suo sostegno, come a mio fratello Matteo, che ha 19 anni e corre alla Montegranaro. L’anno prossimo passerà in una Continental, come caratteristiche mi assomiglia, è un buon passista scalatore. Gli auguro di diventare il più forte in famiglia».
A chi ti ispiri?
«Nel cuore ho Michele Scarponi, marchigiano come me. Sognavo di correre in squadra con lui. Prima del Giro ho visto alcuni video con le sue imprese: mi hanno dato una carica enorme. La violenza che c’è sulle strade ce l’ha strappato troppo presto, non è giusto».
Che obiettivi ti sei posto per il prosieguo di stagione?
«Tra le gare che il team ha in programma, punto a far bene alla Adriatica Ioni­ca Race, dove ho già ben figurato l’anno scorso. Voglio rimettermi in gioco con un po’ di esperienza in più e il Gi­ro nelle gambe. La corsa rosa mi ha di­mo­strato che se mi preparo al meglio, mentalmente e fisicamente, posso giocarmi risultati importanti. Vo­glio continuare a fare le cose seriamente».

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