In ritiro con la Israel Academy De Rosa

di Carlo Malvestio

Quello tra Israele e il ciclismo è un amore appena sbocciato e, per questo, ancora molto acceso. Il picco è stato toccato lo scorso maggio, quando Gerusalemme ha ospitato la partenza del Giro d’Italia 2018, richiamando per le strade migliaia e migliaia di persone, cosa che da quelle parti non era mai successa per questo sport. Ad accendere questa fiamma è stato un magnate mezzo canadese e mezzo israeliano, Syl­van Adams, che si è messo in testa di cambiare la cultura di un Paese intero, trasformando le biciclette da semplice mezzo di trasporto urbano a mez­zo per competere in giro per il mondo e tenere alta la bandiera israeliana nel ciclismo professionistico, nonostante la tradizione quasi nulla verso questo sport.
Nato in Canada, Adams è figlio di isra­e­liani sopravvissuti all’Olocausto ed emigrati in Ame­rica; nutre una passione sconfinata per questo sport, tanto da essersi laureato tre volte campione del mondo nella categoria Master, e due anni fa ha deciso di fare qualcosa di ancora più grande, tornando nella terra dei suoi genitori con la ferma in­tenzione di trasmettere a tutto il Paese il suo amore per questa disciplina.
Così ha in­vestito nell’accademia di Ron Baron e, insieme a lui, ha dato vita alla Israel Cycling Academy, che da tre anni è un punto fermo della categoria Pro­fes­sional. Come se non ba­stasse, ha fat­to edificare un velodromo a Tel Aviv e, come detto, ha realizzato l’impresa di portare la Corsa Rosa in Terra Santa (si dice sborsando 80 milioni di dollari di tasca sua). Già così si era fatta la storia del ci­clismo, perché per la prima volta un Gran­de Giro cominciava fuori dall’Europa.
Otto mesi dopo l’avventura rosa, la squa­dra mediorientale ha inaugurato la stagione 2019, nella quale l’obiettivo dichiarato è scalare la classifica mondiale chiudendo come una delle migliori due squadre Profes­sio­nal, così da potersi garantire inviti im­portanti (nel mi­rino c’è soprattutto il Tour 2020), gra­zie alla nuova riforma del ciclismo. Proprio per questo motivo, l’organico si è decisamente infoltito e i corridori ora sono ben 30, scelta che fa del­la Israel Cycling Aca­de­my il team di seconda fascia con più elementi a disposizione.
I proprietari hanno quindi deciso che fosse giusto che i nuovi arrivati, tra i quali gli italiani Davide Cimolai e Ric­car­do Minali, conoscessero lo Stato di Israele, che si rendessero conto del mo­­tivo per cui è nato questo progetto e di cosa dovranno rappresentare per tutta la stagione 2019.
Così i dieci volti nuovi della squadra, uniti ai corridori israeliani e ad alcuni della squadra satellite, sono stati convocati per un training camp di sei giorni sulle strade di Israele. E con loro noi giornalisti, che abbiamo avuto l’occasione e la fortuna di seguire corridori e staff per tutta la durata del ritiro. L’esperienza si è rivelata unica e formativa, tanto per i luoghi visitati, che spesso vengono citati in Europa ma che finché non te li trovi davanti fai fatica ad inquadrare, quanto per l’in­formalità in cui si è svolto tutto il viaggio, che ci ha permesso di vivere a stretto contatto con gli atleti, direttori sportivi e meccanici, come fossimo amici di vecchia data. L’idea della squadra era di abbinare gli allenamenti in uno scenario inusuale per i corridori, con alcune visite culturali che potessero dare almeno una vaga idea di quella che è la storia, tragica e travagliata, di Israele.
IL TRAINING CAMP
7 gennaio: do­po un piacevole viaggio in taxi con Nicki Sørensen, nuovo direttore sportivo danese della squadra (che vive a Lucca dal 2003, ndr), che ci ha portato dall’aeroporto all’Herods Ho­tel di Tel Aviv, ho avuto il piacere di conoscere la squadra in serata, mentre ci dirigevamo a casa del patron Sylvan Adams, che ha voluto dare il benvenuto a tutti con un aperitivo. In real­tà il concetto di “casa” è riduttivo, vi­sto che Adams vive in un attico al do­dicesimo piano che affaccia sul Mar Me­diterraneo e sulla spiag­gia di Tel Aviv. Davanti ad alcune televisioni lo­cali è stato presentato l’intero roster con un video fotografico, e Adams ha ribadito gli obiettivi agonistici a breve e lungo termine. Prima di tornare in hotel c’è poi stato spazio per una cena tipicamente locale nel quartiere di Jaf­fa durante la quale ho potuto conoscere meglio i simpaticissimi direttori sportivi (tutti presenti ad esclusione del bel­ga Eric Van Lancker, ndr), in particolare il poliglotta team manager finlandese Kjell Carlström e l’estroso francese Lionel Marie, il quale cercava di illustrare ironicamente le sue teorie secondo le quali tutto il mondo odia i francesi. Interessante notare come tutti i diesse sappiano parlare l’italiano, es­sendo statti protagonisti del periodo d’oro del ciclismo del Bel Paese.
Il giorno seguente i corridori hanno potuto finalmente salire in sella e co­minciare ad abituarsi ai nuovi colori che li accompagneranno in questa stagione. Il più entusiasta era sicuramente il gigante irlandese Conor Dunne (2,04 metri di altezza) che, essendo campione nazionale del suo Paese, ha la ma­glia personalizzata, bianca col trifoglio verde in bella vista.
Prima di co­min­ciare la sessione di allenamento - corto, di soli 90 chilometri - il bus della squadra che trasportava tut­ti noi, si è però fermato al confine con la Striscia di Gaza, oggi in mano alla Palestina di Hamas e per questo di difficile accesso, al Black Arrow Memo­rial, che ri­cor­da tutti i paracadutisti e soldati israe­liani uccisi durante la rappresaglia degli anni ’50.
La prima sgam­bata per i corridori è terminata nel bel mezzo del deserto del Negev, a Mash’abei Sadeh, un kibbutz dove abbiamo trascorso le due notti suc­cessive. Storicamente, un kibbutz è un’associazione volontaria di lavoratori, ba­sa­ta su regole egualitarie in cui ogni singolo individuo deve lavorare per gli altri, senza la presenza del denaro co­me ricompensa. Questo per cercare di discostarsi dal consumismo tipicamente occidentale. Con il passare del tem­po sono diventati fondamentali per la produzione industriale e agricola di Israele e, a partire dagli anni Novanta, han­no cominciato ad essere sfruttati an­che per il turismo, come nel caso del no­stro kibbutz.
Il deserto del Negev, che monopolizza tutta la parte meridionale del paese, è stato lo scenario anche dell’allenamento del giorno successivo, quando i corridori si sono im­pegnati in 210 chilometri di sforzo in mezzo alla sabbia, respirando polvere e non passando praticamente mai per un centro abitato. La prima parte è stata abbastanza clemente con gli atleti, vi­sto che era perlopiù una ripida discesa verso il Mar Morto, con il suggestivo passaggio dal Cratere Ramon, che per qualche chi­lometro ci ha dato l’impressione di essere sulla Luna. Giunti sulle rive del salatissimo e splendente Mar Morto, che segna il confine tra Israele e la Giordania, c’è stato giusto il tempo per una pausa di 15 minuti, un caffè e qualche selfie da inviare ad amici e parenti, per poi risalire in sella alle biciclette De Rosa e fare nuovamente rotta verso il kibbutz.
Per la prima volta i corridori si sono imbattuti in una salita, 13 chilometri con pendenze non troppo arcigne, da affrontare a ritmo elevato. Io sono salito in ammiraglia con Sørensen, aiutandolo a distribuire borracce e mantelline varie ai corridori, visto che le temperature erano ideali - intorno ai 15° - ma il vento era piuttosto fastidioso, e ascoltando i consigli che dava ai suoi corridori per affrontare la scalata e la successiva discesa. Dopo la lunga sfacchinata, durata dalle 9 di mattina fino al tramontare del sole, Cimolai e compagni hanno avuto la serata libera (“libera” per modo dire, visto che erano in mezzo al deserto e non c’era nulla da fare nei dintorni); il momento ideale per i giornalisti per parlare un po’ coi corridori.
Sia Cimolai che Minali avevano come compagni di stanza corridori israeliani, il primo era con il giovane velocista Ita­mar Einhorn, mentre il secondo con Omer Goldstein: chiara scelta della squadra di abbinare i corridori locali con atleti europei più esperti, dai quali possono apprendere piccoli dettagli utili alla vita di un ciclista professionista. La crescita dei talenti israeliani, infatti, è ostacolata dall’obbligo del­la leva militare, seppur part-time, che li tiene impegnati per tre anni una volta maggiorenni: i giovani tra i 18 e i 21 anni sono costretti a partecipare alle cor­se solamente durante i 30 giorni di “ferie” che hanno du­ran­te l’anno.
Anche il giorno dopo non si è scherzato affatto, visto che i corridori si sono cimentati su un percorso di 190 chilometri che li ha portati fino alla trafficatissima Geru­sa­lemme. Stavolta, insieme all’addetto stampa del team Nigel Kelly, un irlandese pieno di energie che l’ultimo giorno scoprirò, con grande stupore, essere il figlio di Sean Kelly, li seguo nel van guidato dal direttore spor­tivo ceco Re­né Andrle, che per tut­ta la durata del tragitto, tra sorpassi e manovre piuttosto rischiose, ci ha raccontato com’è la vita da diesse, che lo tiene lontano dalla sua famiglia per 200 giorni all’anno.
Nella prima serata nella Città Santa, la squadra ci ha portato al museo di Yad Vashem, che ricorda le vittime della Shoah, e gli atleti, coi due italiani in testa, hanno reso omaggio a Gino Bar­tali nel Giardino dei Giusti, dedicato a tutti i non ebrei che si sono adoperati per salvare la vita di un ebreo durante quei tragici anni. Adams, i cui genitori come detto hanno vissuto sulla loro pelle quella situazione, ha voluto anche fa­re un discorso molto toccante ai suoi cor­ridori, spiegando l’importanza che questo museo ricopre per la cultura ebrai­ca e israeliana e quanto sia fon­damen­tale non dimenticare, affinché que­gli errori disumani non vengano ri­petuti.
Nell’ultimo giorno ufficiale di ritiro, la squadra ha incontrato finalmente i suoi tifosi in un bar all’aperto nella periferia di Gerusalemme e, neanche a dirlo, la star assoluta è stato il gigante irlandese Dunne, disponibilissimo nello scattare fotografie con tutti gli appassionati, in­cu­riositi nel vedere uno spilungone co­me lui, che sicuramente sorprenderebbe meno vedere in NBA, in sel­la ad una bicicletta.
Dopo quattro chiac­chiere e qualche caf­fè, siamo ri­partiti per un nuovo allenamento di circa 150 chilometri, che ci ha visto anche sconfinare in Palestina.
«Da queste parti non ci sono pericoli, ma allenarmi qua, con questa maglia, non sarebbe una cosa consigliabile» scherza, ma neanche troppo, il campione nazionale israeliano Roy Goldstein, che nella sua divisa speciale ha la stella di David in bella vista.
In serata è stato finalmente il momento di recarci nella Città Vecchia dove, con una guida, ci siamo immersi nella cultura ebraica davanti al Muro del Pianto (alcuni corridori hanno espresso qualche desiderio inserendo i foglietti nelle fessure) e poi in quella cristiana con la Chiesa del Santo Sepolcro.
Dopodiché siamo andati a cena tutti as­sieme: al termine, i proprietari del team, seguiti dai direttori sportivi e da alcuni corridori e massaggiatori, sono intervenuti per motivare la squadra e ringraziare tutti quanti hanno partecipato all’inusuale training camp, insistendo sul fatto che la Israel Cycling Academy è un team differente da tutti gli altri, per cultura e attaccamento alla maglia.
“We just get started” ama ripetere Syl­van Adams, “Abbiamo appena iniziato”, per confermare il fatto che questo non è un progetto passeggero ma è l’espressione della ferma volontà di una nazione di arrivare ai vertici del ciclismo mondiale.
E se lo dice Adams c’è da credergli; se in pochi anni ha dato vita ad una squadra Professio­nal e ha portato il Giro d’Italia a Geru­salemme, perché non do­vrebbe riuscire a partecipare anche al Tour de France e far crescere nuove leve israeliane nel prossimo futuro? Però fate attenzione, perché una cosa è già certa: Israele ha scoperto il ciclismo.

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