Rapporti&Relazioni
Il lavoro della bici

di Giampaolo Ormezzano

Una sezione del Museo dei Campionissimi, a Novi Ligure, è dedicata alla bicicletta intesa come strumento di lavoro. Possibile decidere che si tratta di un ulteriore omaggio a Fausto Coppi, il quale usò la bicicletta per il lavoro di garzone di macelleria. Ma in fondo, se si assimila il lavoro allo sport nel senso di fatica fisica, ci siamo lo stesso, il rapporto esiste, Coppi o non Coppi.
In quel museo, sono le biciclette di quella sezione ad essere campionissime, indipendentemente dagli uomini oscuri e preziosi che sono saliti sopra ad esse. Perché c’è la bicicletta del venditore di farinata, con l’ampia plancia per il gran cibo dei poveri, c’è quella del barbiere, del crocerossino, del suonatore di organetto ambulante, del soldato di questa o quell’arma, su tutte si capisce l’arma dei bersaglieri. La bicicletta con i suoi annessi e connessi, anzi annessi e sconnessi perché il passare del tempo ha reso precaria la situazione di alcune parti della bici stessa, del “coso” venuto fuori dall’unione del mezzo mobile con le strumentazioni per questo e quel lavoro.

Il posto al Museo dei Campionissimi diventa autenticamente ed immediatamente di meditazione se si pensa 1) a come la bicicletta è stata davvero strumento di lavoro, come e forse più di ogni altro strumento di altro sport, e 2) a come nessuno sport dia, nella sua esecuzione così forte e così pura, la sensazione, l’idea, il senso, il sentimento del lavoro.
Non siamo certi che nel porco mondo attuale questi siano pregi. Possono essere anche limiti, tipo: strumento da lavoro, puah. Perché la fatica fa schifo, il lavoro sta diventando premere col ditino su un bottone, e pazienza se a monte, anzi a valle, una valle di lacrime, dove si fabbricano queste macchine mosse dai bottoni, lavorano a costruirle tanti schiavi, per metterle insieme assemblando pezzi che altri schiavi hanno prodotto.
La visita è istruttiva, quasi certamente diventa emozionante, e può anche evolversi, farsi commovente. In altre sezioni diveggiano, rutilanti o coperte di opacità gloriosa, le biciclette del ciclismo agonistico ottimo massimo. Quello ricordato, nelle bacheche, da titoli di giornale che adesso non si fanno più, perché anche la Milano-Sanremo è ridotta, il giorno del suo svolgimento, sullo stesso quotidiano organizzatore ad una apparizione di una colonnina nella prima pagina occupata tutta dal calcio, un richiamino, un rinvio ai servizi all’interno. C’è fra gli altri un quotidiano sportivo col titolo che un giovane redattore suggerì da Sanremo il giorno in cui, dopo lunga dominazione straniera, era finalmente tornato alla vittoria un italiano, e questo aveva fatto suonare le campane del bel ricordo, dell’entusiasmo e della statistica. Il titolo era DIN-DON-DANCELLI, e con felice stupore il giorno dopo il giovane redattore vide che proprio il suo titolo riempiva la parte alta della prima pagina di un giornale che da quel momento sentì ancora più suo.

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Certo che stanno cambiando i temi di conversazione quando ci incontriamo noi del ciclismo, noi ciclofili, noi ciclologhi, noi ciclomani (sfumature all’interno di una tribù peraltro abbastanza compatta, anzi coesa come si dice adesso nell’alta politica). Una volta i temi erano principalmente del genere agonistico-pronosticatore, oppure rievocativo-indagatore. Le domande erano del tipo di: ma sei sicuro che può farcela? ma sei sicuro che le cose siano proprie andate così? Adesso parliamo di doping, il nostro morto importante è diventato un altro, dopo i quaranta e passa anni di evocazione di Coppi, e si chiama Pantani. Adesso parliamo di soldi. È sceso molto l’argomento sesso, che pure una volta occhieggiava sempre, anche perché il ciclismo suggeriva una idea di sacrificio e spesso di castità troppo pesante per essere creduta sino in fondo, troppo severa per non creare automaticamente il contraltare della licenza sboccata, anche se soltanto a parole. Curiosamente o no, la donna nel ciclismo ha persino meno importanza di una volta, quando era decisiva perché non veniva frequentata o perché veniva frequentata un po’ troppo rispetto alle usanze. Dalla moglie di Girardengo la quale faceva sapere che lei e il marito diventavano fratello e sorella dalla Sanremo sino al Lombardia alle dame bianche d’Italia e poi di Francia.
Non ci sono nel ciclismo veline, letterine, schedine, stelline aggrappate ai corridori, forse perché i corridori guadagnano poco rispetto ai calciatori, sono meno affascinanti nel loro abito da competizione, ed hanno le gambe rasate svirilmente per favorire i continui massaggi. Boh.
Comunque il genere è cambiato: chissà se perché è cambiato il ciclismo, è cambiato il mondo, siamo cambiati noi . O forse perché sappiamo per certo di possedere argomenti preziosi, ricordi sacri, moralità assolute superiori ad ogni chimica proterva, tradizioni sublimi, e abbiamo paura che qualche infiltrato ascolti queste cose e un po’, se non altro avvolgendole di curiosità, le faccia sue.

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Smaltito il Giro d’Italia, per capire cosa di più grosso e di più grande è comunque il Tour de France consigliamo ferie anticipate a luglio, permanenza in un qualche paesino della Francia (non è obbligatorio che sia la Costa Azzurra, fra l’altro l’unico posto dove i prezzi sono cresciuti come da noi e forse più), visione del Tour nei televisori dei bar, fra la gente. E se si ha un proprio televisore (ormai anche gli albergucci a pochissimo prezzo, bella iniziativa in cui la Francia ci batte quanto a onesta economicità, li hanno), si vede come il Tour occupi, nelle sue varie apparizioni sul video, davvero la vita della nazione, come assembli il paese, come sia pifferaio costantemente magico nei riguardi di artisti, intellettuali, poeti. Filosofi. Cose risapute, conclamate, però vedere che tengono, nonostante i tempi che cambiano, fa bene al cuore ed anche al cervello. Per chi ama il ciclismo vien da piangere di felicità. E di invidia.
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