Allarme, c’è il Tour e torna la moda del Tour. Una moda che è anche un flagello. Si diffonde più o meno così: inviati emergenti e vicecapi frustrati conversano amabilmente in qualche salotto, parlano soprattutto di quanto è cane questo e di quanto è analfabeta quell’altro, poi, quando l’elenco è completo e si sono salvati per bravura e capacità di scrittura solo i presenti, ce n’é sempre uno che assume l’aria ispirata e la butta lì: «Certo, non sarebbe male seguire un Tour».
Ci siamo. Il Tour come feticcio, il Tour come status-symbol, il Tour come medaglia da appendersi alla giacca, il Tour come elemento che fa tendenza. Il Tour diventa «cult». E ovviamente è la rovina del Tour. Perché prima o poi questi riescono ad andarci e si presentano in Francia non certo perché siano in qualche modo interessati al ciclismo, figurarsi, ma piuttosto per dare libero sfogo al personale bagaglio di cultura storico-geografica, per liberare la vena di ritrattisti a dimensione internazionale, in definitiva per tornare un giorno a casa e tener banco nelle cene intelligenti con l’eccitantissimo tema «Ho fatto il Tour».
Regolarmente, ogni volta veniamo informati che:
1) La Francia è un grande Paese, al confronto l’Italia fa veramente schifo;
2) Come si mangia e si dorme in Francia, noi ce lo sognamo;
3) Le campagne francesi sembrano giardini, le nostre sono cessi;
4) La Francia ha mandato in galera Tapie, noi invece Berlusconi ce lo teniamo;
5) Ultimo in ordine d’importanza, comunque evidentissimo, il ciclismo di una volta era tutto un’altra cosa, se uno pensa a Bartali ed Anqeutil adesso potrebbe anche suicidarsi.
Tranquilli, anche stavolta andrà così. C’è un sacco di gente che vuole andare al Tour per completare la bacheca personale - due Olimpiadi calde, una fredda, tre campionati del mondo di calcio, una Coppa America di vela, un centinaio di derby e una volta persino il festival di Sanremo -, ma del ciclismo non gliene può importare di meno. Il loro problema è che Orio Vergani e Dino Buzzati hanno scritto di ciclismo, dunque non si può entrare nell’albo dei più grandi (quali immancabilmente credono di essere) senza questo specialissimo e prestigioso lasciapassare. Non sanno nulla di Tafi e di Noé, per spiegare due cose devono regolarmente sentire Moser e Gimondi, ovviamente convintissimi di partorire idee innovative. In una parola, in una drammatica parola, scoprono il Tour. E purtroppo esigono di farlo capire anche al resto dell’umanità.
Ognuno ha la libertà di lavoro, di pensiero e di trasferta, ci mancherebbe altro. Oltre tutto, ben vengano i contributi di menti e di sguardi freschi, vergini, digiuni, pronti a cogliere quello che purtroppo l’inviato di settore dà ormai troppo per scontato. Però sotto ci dev’essere un minimo di interesse, uno dev’essere contento di raccontare il Tour come racconterebbe la Coppa Agostoni, perché le storie dei corridori e dell’umanità che si muove dietro alla carovana hanno una loro ricchezza, una loro gioiosa dignità a prescindere dalle strade e dai traguardi che frequentano. Retorica? Ma quale retorica. Il ciclismo deve guardarsi dai giornalisti in gita di piacere. Questi sono poi gli stessi che per il resto della carriera - prima e dopo il mese in cui esiste solo il Tour perché ci sono loro - scrivono sui giornali e dicono in tivù che il ciclismo è uno sport morto, che non interessa più a nessuno, che non riesce più ad esprimere personaggi che siano veramente tali.
Allora porte aperte a gente nuova che ama la bicicletta e le sue storie, diffidenza e autodifesa invece nei confronti di chi arriva solo per ultimo a raccontare la scoperta dell’America. Mi viene in mente un episodio raccontato prima che partisse il Giro da un carissimo collega Rai. Sai, mi spiega col sorriso amaro, ho appena parlato con uno nuovo, uno che ha voluto a tutti i costi essere qui: mi ha chiesto se Cipollini può vincere il Giro, non ho saputo neppure io cosa rispondere.
Ecco, i tipi sono questi. Niente di male se la gente non sa che Cipollini è un grande velocista che però non regge i cavalcavia e che dunque nella sua carriera non vincerà mai il Giro e manco se corresse da solo. Non è un delitto. Ma cosa succederebbe a un giornalista che volesse seguire il calcio e esordisse chiedendo se un certo Walter Zenga ha la possibilità di vincere la classifica dei cannonieri? Certo, lo imbarcherebbero subito sull’astronave dalla quale è appena sceso. Appunto.
Cristiano Gatti, 38 anni,
bergamasco, inviato de “Il Giornale”
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