Zavoli ottant’anni da innamorato del ciclismo
di Gian Paolo Porreca
Compirà 80 anni, il 21 settembre prossimo, ma la voce e lo spirito e la mente sono sempre azzurri.
Sono la voce, lo spirito, la mente di Sergio Zavoli, il giornalista riminese sovrano della parola scritta e di quella radiotelevisiva, direttore di quotidiani, direttore della Rai, saggista e poeta, oggi senatore, primo innamorato del ciclismo. Il che non suona affatto banale, affatto desueto, al solo ricordo della umanità e del coinvolgimento emotivo, si parlasse pure solo di Mazzacurati e Taccone, che suggeriva il suo indimenticato “Processo alla tappa”.
Finirà mai il ciclismo, direttore?
«Il ciclismo non avrà mai fine, caro amico, perché esso sta nella natura, negli occhi e nel cuore della gente. Le sue cadute possono solo attardarlo, non condannarlo a perdersi al di là del “tempo massimo”».
Quale ciclista, a lei che ha raccontato con tanto affetto anche di Liviero e Catalano, le è stato più caro ?
«Faccio ovviamente fatica a rispondere, e sarebbe banale dire Coppi. Ed allora le confido che amavo particolarmente Zilioli, sì Italo Zilioli, l’ultimo dei “coppini”. Lo prediligevo perché si azzuffava sempre con i suoi sogni, perché troppo spesso non riusciva a concludere una corsa con l’animo con il quale l’aveva iniziata. Perché era vibratile, vulnerabile, generoso, un po’ stupito, tanto elegante. In certe occasioni è così appartato da poter essere tutto, fuorchè un ciclista o la sua icona consueta».
Lo sa che proprio in questi giorni è tornata a correre una Nazionale azzurra di professionisti?
«Sì lo so, ed è una notizia che ha lusingato la mia fantasia. Vede, se ne avessi il potere, io proporrei addirittura un campionato di calcio fatto di squadre di città che schierino solo atleti della propria terra, e si immagini allora quale gioia sarebbe per me ritrovare ancora un Tour o una grande corsa in linea disputata dalle squadre nazionali...».
Non saremo mica dei sognatori, in questo contesto mediatico che ci assorda dei rumori degli altri sport ?
«Vede, Alfonso Gatto, il grande poeta salernitano che il ciclismo non lo conosceva, scrisse del Giro d’Italia: “sogno di volare”. E sono sicuro che nulla, nulla nel nostro sport, consentirà che abbia mai termine il sogno dei poeti».
Ed una volta ancora, salutata la voce garbata, ci rammentavamo di una domanda, di una curiosità che a Zavoli ogni volta che lo incontriamo dimentichiamo di chiedere. Vorremmo chiedergli se ricorda ancora o se ha più visto quel Moretti, quel modesto corridore della piccola CITE che gli confessò in diretta di aver scelto il ciclismo in età matura come fosse una Legione Straniera, il tramite privilegiato - a quei tempi ...- dell’avventura: solo per scappar via dalla normalità quotidiana, dalla fabbrichetta del padre padrone. Quel Moretti lì, sempre in coda al gruppo nelle prime frazioni del Giro ’62, che proprio lui - e solo lui, Zavoli - avrebbe saputo convincere, con la suadente discrezione di un consigliere spirituale, a tornare saggiamente sui suoi passi, nella sua famiglia e nei suoi giorni già scanditi. In bici, semmai, figliol prodigo sulla ritrovata via di un altro lavoro onesto. Come questo beneamato ciclismo nostro e di Sergio Zavoli.
Gian Paolo Porreca, napoletano, docente universitario
di chirurgia cardio-vascolare, editorialista de “Il Mattino”
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