Di Rocco: «Il ciclismo è più forte di tutto»

| 20/02/2007 | 00:00
Due ore con noi, in redazione, a parlare di ciclismo: dei suoi tanti problemi, di altrettante speranze e progetti per rilanciarlo. Renato Di Rocco, storico e appassionato dirigente, da quasi due anni è presidente della Federazione Ciclismo, che ha preso in mano in uno dei momenti più difficili della sua storia. Ma appunto la sua estrazione, la sua profonda conoscenza del movimento di cui ora è il massimo dirigente italiano, lo porta a dire che il ciclismo non è solo quello degli scandali e delle copertine tristi. Ma è un mondo che, pur colpevolmente diviso, ha piena coscienza dei suoi problemi, e sta intraprendendo la strada di una profonda rivoluzione culturale. Che parte dai bambini e da una vocazione sempre presente, dalla riscoperta della bici come mezzo privilegiato ed ecologico di trasporto, da una lotta al doping sempre più capillare. «Io ci credo» è il messaggio che ci ha lasciato Renato Di Rocco. Ecco perché. Presidente, cos’è il ciclismo oggi? «Il ciclismo è una passione che vive una seconda giovinezza. Come dice il grande tenore Bocelli, tra l’altro amico di Petacchi, il ciclismo è vento nel viso e silenzio. Detto da una persona come lui, è un elogio bellissimo». Dai professionisti ai ragazzini, qual è il suo impegno quotidiano? «Mi occupo pochissimo di ciclismo agonistico, nel senso che i professionisti vanno avanti da soli e nonostante quello che pensa la federazione internazionale il nostro ciclismo è tra i primi del mondo. Il mio impegno è rivolto alle squadre under’23 e juniores». Qual è il suo pensiero su Pro Tour, la Formula 1 del ciclismo mondiale? «Così comìè oggi è deleterio. Non lo è a livello teorico, perché non è sbagliata l’idea di allestire un ciclismo d’elite. Avrebbe dovuto rispettare le tradizioni storiche di nazioni come Spagna, Belgio, Italia, Francia. Se imponi il Giro di Germania durante la Vuelta o il Giro di Polonia durante il Giro d’Italia vuol dire che stai rovinando quello che di certo esiste». La sua proposta? «I Grandi Giri rappresentano il 70% del ciclismo mondiale3. I diritti che il Giro d’Italia ottiene oggi rappresentano l’80% dei diritti del ciclismo italiano. Stessa cosa per il Tour de France. La proposta è sedersi tutti attorno ad un tavolo per fare sinergia e ottenere qualcosa in più». Cosa c’è sotto l’iceberg del professionismo? «La mia idea è partire dal grande ciclismo per far crescere le discipline minori: il ciclocross, la pista, la mountain bike. La pista è stata snaturata perché l’hanno spostata in inverno. La Federazione ciclistica non può organizzare un campionato d’Europa, perché non abbiamo velodromi coperti. All’estero la pista sta tornando su. La Spagna ha quattro piste coperte, l’Inghilterra tre. Noi ne faremo una a Montichiari». Se Roma vorrà avere un’Olimpiade, bisognerà affrontare anche il problema di un impianto nella capitale. «Si parla di un’area al Laureano. C’è l’idea di fare una cittadella dello sport, però se Roma vorrà candidarsi per un Olimpiade il velodromo dovrà essere coperto, io ho scritto anche una lettera ufficiale ma il sindaco Veltroni in questi tempi è tutto preso… dal basket». Presidente, perché il ciclismo non riesce a debellare il doping? «Noi siamo attentissimi al problema doping e lo facciamo con il massimo della trasparenza. Teniamo sotto osservazione molti atleti di tutte le categorie, dei giovani ai professionisti. Facciamo controlli sui quattro valori basali e li facciamo a sorpresa. Nei fatti si crea una banca dati gestita qui in Italia da agenti esterni alla Federazione ciclistica. Quando sono diventato presidente ho subito chiesto che i controlli anti-doping fossero gestiti all’estero: Wada, Coni o Ministero della Salute ma non dalla Fci». Nei particolari? «Stiamo facendo monitoraggi sugli juniores: prendiamo circa 250 ragazzi come fascia d’ingresso nella categoria internazionale: li controlliamo e li seguiamo. Il grosso impegno sarà quello di convincere i ragazzi che si possono raggiungere risultati con lavoro, vita d’atleta, poche discoteche e mangiare sano. Alla fine non ci sarà tanta differenza con quello che predicano i “maghi”». Però è stato il ciclismo a inaugurare l’era degli atleti che dedicavano le vittorie ai propri medici. «Serve il ritorno al preparatore alla Rondelli. Lavorando sulla preparazione puoi fare risultati. Dove abbiamo formato i minori abbiamo coinvolto le famiglie e qui siamo incappati in un problema grave. Molto spesso sono le famiglie che vanno dal dottore: vedo il mio ragazzo debole e pallido, deve studiare e fare allenamento: ce l’ha un aiutino?». E’ sufficiente aumentare il budget dei controlli? «No. I controlli li devi fare a sorpresa, e soprattutto mirati. C’è partecipazione nel gruppo che ci segnala questi casi e miriamo su questi». Lei dice che conviene investire nel ciclismo: perché? «Perché il ragazzo di oggi è più rispettoso del fischietto di un arbitro che non del richiamo di un insegnante. Sono venute meno le agenzie formative rappresentate dalla famiglia e dalla scuola. E lo sport può giocare il suo ruolo come altre discipline dove c’è fatica impegno e passione». Il ciclismo non è solo Giro d’Italia: a che punto è con pista, ciclocross e mountain-bike? «Stiamo riscoprendo le specialità date per spacciate. A Lucca c’erano 600 partenti per i campionati italiani di ciclocross. La pista era morta, a Bassano abbiamo avuto campionati italiani con 570 partenti. Abbiamo rilanciato la cronometro, specialità bellissima». Progetto Olimpiade di Pechino 2008. «A Pettini dobbiamo essere grati tutti per avere detto che l’Olimpiade ha segnato la sua vita. Quello è il valore vero dello sport. Credo che Basso farà la cronometro, perché ci tiene a farla. Il problema è il quartetto perché oggi non siamo in grado di fare un progetto, non ho risorse per dire: fermiamo, ad esempio, Bennati per tre mesi. Forse per il 2012 sì». Dal caso-Basso all’oro di Pettini. Quale si avverte di più? «Io dico invece che l’effetto-Basso è stato produttivo. In un certo periodo in molti ambienti mi ringraziavano per ciò che stavo facendo per Basso: io rispondevo che stavo cercando solo di mettere a disposizione del ragazzo la possibilità di difendersi. Basso ha una faccia pulita, la gente crede in lui». Di Rocco metterebbe la mano sul fuoco per Basso? «Io non metto la mano sul fuoco per nessuna persona che fa sport». In base al codice etico è stato giusto sospenderlo? «No. Assolutamente no. Mi devono ancora spiegare perché 58 corridori non hanno fatto il Tour. Il codice etico se applicato in modo corretto, e non solo da una parte, sarebbe un mezzo più efficace di altri». Il test del Dna è una violazione dei diritti civili o un mezzo giusto? «Se applicato dai soggetti giusti, va bene. Ma deve essere la magistratura a chiederlo». Perché nell’opinione pubblica il ciclismo viene considerato l’unico sport dopato? «Perché il ciclismo ha un impatto forte, e ha grandi numeri». Il ciclismo non ha alcuna colpa? «Come no, di errori ne abbiamo fatti tanti». Se tutti gli sport si facessero il numero e la qualità dei controlli che si fanno nel ciclismo, quanti scandali ci sarebbero negli altri sport? «Quanti nel ciclismo. Se di più, non posso dirlo». L’immagine del ciclismo è recuperabile? «Sì, sicuramente». Ma l’opinione pubblica ormai non perdona più nulla. «L’opinione pubblica è condizionata dalla comunicazione. Io da genitore, se avessi dovuto fare qualcosa dopo i fatti di Catania, non avrei chiuso gli stadi, ma avrei oscurato il Grande Fratello. Perché se il modello è quello, per le mamme che accompagnano le figlie a fare la fila a Cinecittà per i provini, ti spieghi il risultato». Alcuni grossi marchi sono andati via dal ciclismo: Mapei, Fassa Bortolo, ora la Discovery Channel. «Non è vero. Negli ultimi anni il budget delle società per l’effetto del “Pro Tour” si è triplicato e non è commercialmente sostenibile. E’ la politica di Verbruggen, che vuole solo multinazionali. Mapei è andata via solo per sfiducia in Verbruggen. Ma ti dicono la Mapei stessa che la resa di immagine del ciclismo è superiore a qualsiasi altra disciplina: metti dieci e ottieni centotrentacinque». I bambini si avvicinano ancora numerosi al ciclismo? «Abbiamo puntato sulle società, ce ne sono più di 200 che fanno attività solo dai 6 ai dodici anni. Noi stiamo spingendo per avere spazi protetti. Io vado poco alle corse dei professionisti, preferisco le iniziative per i ragazzi. In Umbria c’è stato un genitore che, dopo la morte del figlio piccolo, ha costruito un’area ciclabile protetta di 2200 metri. Nel 2006 ne abbiamo inaugurate 45. Abbiamo mandato tutti i Comuni d’Italia un progetto della nostra Commissione impianti affinché possano realizzare un ciclodromo con una spesa di 85-100 mila euro. Non è una spesa eccessiva. L’esempio viene dall’Umbria: ha rotto ciclodromi dai 600 ai 1100 metri tutti protetti e realizzati prima che partisse il nostro progetto. Abbiamo convinto le società ad aprire gli impianti anche al mattino o alla sera: ai disabili e agli anziani, alle famiglie, a chi pattina e ai maratoneti. Anche ai nonni che accompagnano i banbini. E’ un ciclismo sociale: il bambino deve scoprire la bicicletta e poi faccia sport. Io ragiono prima da genitore e poi da dirigente di federazione». Qual è l’iniziativa più bella che ritiene di aver fatto? «Aver regalato 2000 tricicli alle scuole materne, nelle zone più a disagio. Gli insegnanti sono stati entusiasti». E quelle che vorrà fare? «Sempre più operazioni di carattere sociale. Il corpo Forestale dello Stato ci ha chiesto delle bici per sostituire i cavalli; lanceremo la giornata delle famiglie in bicicletta. Il 2007 dev’essere l’anno della riscoperta della bicicletta. La gente è tornata a usare la bici per muoversi. Con il Ministero dell’ambiente stiamo monitorando tutte le piste ciclabili in Italia: vogliamo fare una guida da mettere in rete, implementarla con le bellezze artistiche, e con le strutture alberghiere. Per noi potrebbe essere l’occasione di uno sviluppo post-carriera di tanti corridori. Come sta facendo Massimiliano Lelli, che in Toscana raduna gli americani che vogliono scoprire la Maremma, e in un anno ha creato una squadra di 50 giovanissimi». Un passato non troppo limpido. «E’ più sicuro uno che ha sbagliato. Stiamo riqualificando tutto il mondo dei tecnici, li abbiamo messi al centro del progetto». (da Il Corriere dello Sport del 20 febbraio 2007)
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