TOSATTO 2.0: NUOVE IDEE, NUOVI SOGNI

PROFESSIONISTI | 29/01/2017 | 06:50
Nel 2016 Matteo Tosatto ha fe­steggiato 20 anni di carriera. Gambe e testa del gregario di lusso di Castelfranco Veneto hanno dimostrato che funzionano ancora bene tanto che fino a un mesetto fa di disputare un’altra stagione in gruppo ne era ancora convinto.
A maggio ha spento 42 candeline ed era quasi sicuro che, con la chiusura della Tinkoff, avrebbe trovato spazio alla Trek insieme a capitan Contador, invece le trattative con la formazione di Luca Guercilena non sono andate in porto. Così, non avendo ricevuto altre proposte nell’ambito del World Tour che lo stimolassero, il “Toso” ha deciso di appendere la bici al chiodo.

Insieme a lui ripercorriamo due decenni di ciclismo e guardiamo al futuro prossimo di questo sport, che di certo Matteo non lascerà visto che ha già in mente un ambizioso obiettivo da raggiungere in un’altra veste. Leggete l’intervista per scoprire progetti e sogni del Toso 2.0.

Felice della tua carriera?

«Sì, avrei voluto terminarla al Tour de France o in occasione di un altro grande evento, ma non ho rimpianti. È sta­ta davvero lunga e ricca. Ho vissuto tan­ti momenti positivi, partecipato a corse prestigiose e mi sono tolto belle soddisfazioni. In primo piano metto i mondiali che ho corso, vestire la maglia azzurra - per me che la sentivo in particolar modo - è stato qualcosa di fantastico, che va al di là delle vittorie con il club. Ho disputato sette (più uno da riserva) campionati del mondo da gregario di cui 4 vinti dall’Italia. Un re­cord che nessuno altro può vantare, ne sono orgoglioso».

Altri bei ricordi che non scorderai mai?
«Nel mio cuore resterà sempre la vittoria di Petacchi alla Milano-Sanremo 2005. Da gennaio iniziammo un percorso con un obiettivo chiaro in testa che siamo riusciti a raggiungere con quel gruppo fantastico che era la Fassa Bortolo. A seguire c’è stata la parentesi Quick Step in cui mi sono tolto la soddisfazione di vincere al Tour e le classiche del nord con Boonen, infine ci so­no stati i Grandi Giri con Alberto (Con­tador, ndr), una gioia meno istantanea rispetto alle glorie di un giorno ma più completa e sofferta dopo le fatiche di tre settimane vissute in strada, a cui vanno aggiunti gli allenamenti in altura, le gare di avvicinamento e tutte le giornate tra alti e bassi che sono cruciali per la vittoria che alla fine premia chi riesce a stare più calmo e a tirare fuori quello che serve in 21 giorni, vale a dire... gli attributi».

Tra i tanti momenti belli, ce ne sarà stato qualcuno meno felice...
«Certo. Ricordo per esempio quando nel settembre 2001 ebbi un grave incidente in macchina e mi ruppi il braccio sinistro in nove punti: quell’inverno soffrii molto, così come all’inizio dell’anno successivo per conseguenti problemi alla schiena e cervicali, ebbi paura di non riuscire a tornare competitivo, invece nel 2002 vestii la maglia azzurra e contribuii al successo iridato di Cipollini. Grazie alla vittoria di Ma­rio, mi passarono tutte le sofferenze. Un altro momento brutto, personalmente, è stata anche la caduta di Al­berto al Tour 2014, a cui eravamo arrivati tutti in grandissima forma. Con Nibali si sarebbe giocato la maglia gialla, Contador non era mai stato così forte. Ad ogni modo mi ritengo fortunato, le gioie sono state superiori alle débacle. Un’altra scena che non scorderò mai sono i ventagli che creammo al Tour 2013 con sei Tinkoff davanti, dando un minuto a Froome. Non servì per la vittoria finale né di tappa ma fu una cosa fantastica che ancora oggi mi rende fiero per la compattezza e l’affiatamento che c’erano in seno al nostro gruppo».

Vent’anni di professionismo non sono da tutti. Cosa ci vuole per restare al top tanto a lungo?
«Passione per la bici, non abbattersi nei momenti meno fortunati, avere cura del proprio fisico e la giusta mentalità che ti porti a “fare la vita” al cento per cento. Io ho avuto il merito e la fortuna di disputare queste venti stagioni con top team, avere a che fare con campioni di primissimo piano ti dà un ulteriore stimolo per dare il massimo in allenamento e non lasciare nulla al caso per essere competitivo. Fino ai 30/32 anni pare tutto normale e scontato: correre, vincere, far vincere i tuoi compagni, quando sei più maturo capisci invece quanto vale il tuo contributo. Più diventi vecchio, più devi affrontare sacrifici. Per me non sono mai stati un peso, basti pensare che nel mio ultimo anno ho corso due Grandi Giri».

La tua famiglia come ha vissuto questi anni?
«Chi vive vicino a un corridore fa ancora più sacrifici di noi che siamo concentrati sul nostro lavoro. Nella prima parte di carriera ho avuto il sostegno fondamentale dei miei genitori e di mia sorella. C’è sempre bisogno banalmente di qualcuno che ti prende e porta all’aeroporto, ti fa fare dietro macchina o dietro moto (grazie papà)... Poi è arrivata mia moglie che di ciclismo all’inizio non sapeva nulla ma ha imparato a comprenderlo suo malgrado. A lei posso solo dire grazie, mi ha sempre assecondato in tutte le decisioni, la­sciandomi libero di fare quello che ritenevo fosse meglio. Se dovevo stare in altura 15 giorni di più di quanto preventivato, non si è mai lamentata. Se non avessi avuto al mio fianco una don­na brava e comprensiva come lei, sarebbe stata molto più dura. Tempo da recuperare ora ne abbiamo, anche se in inverno sono sempre stato attento a trascorrere il maggior tempo possibile in famiglia, soprattutto negli ultimi sei anni, da quando sono papà di Em­ma. Ho passato tanti mesi senza vedere mia figlia e ora me la voglio proprio godere. Mia moglie dice che mi vede nervoso, io non me ne rendo conto, ma è chiaro che smettere di correre è un cambio di vita radicale, dopo 30 anni che fai solo questo (oltre ai 20 di professionismo ci sono tutte le stagioni precedenti da ragazzo da contare). Mia figlia non si rende conto di quello che sta accadendo a casa ma sentendomi parlare al telefono, mi ha detto: “papà io voglio che corri ancora perché voglio vederti in tv”, ma in realtà è felice che io sia a casa con lei».

Ripensando a cosa avevi trovato quando sei passato prof, ora cosa lasci?
«Il ciclismo in questi anni è cambiato tantissimo, così come la nostra società in generale. Una volta il nostro settore era meno tecnologico, più divertente e forse anche naif, ora son tutte ta­belle. In gruppo si sono ridotte le amicizie, stringere e mantenere legami profondi è molto più difficile: i miei compagni del ’97 sono ancora oggi ami­ci a cui mi lega un rapporto umano che va al di là della bici, quelli più re­centi li conti sulle dita di una mano. Una volta alle corse, quando si era finito di mangiare in hotel, ci si ritrovava nella hall per una mezz’oretta di “salotto” ora tra internet e telefonini questi mo­menti di condivisione mancano, ma io dico che una squadra rende di più se i corridori so­no affiatati tra loro. L’u­nio­ne fa la differenza, lo abbiamo fatto vedere negli ultimi anni tra Saxo e Tin­koff. Con Bennati, Ro­che, Kreuziger, Paulinho e gli altri ci sentiamo anche se le nostre strade si sono divise».

Quali sono i compagni con cui ti sei trovato meglio?
«Il mio primo capitano è stato Michele Bartoli, ancora oggi ci scambiamo qual­che messaggio e quando ci vediamo ci abbracciamo con affetto. È stato un signor capitano. Poi ho avuto a che fare con un giovanissimo Pippo Poz­zato, con il quale sono più amico ora di quando correvamo insieme. Ho inoltre un bellissimo rapporto con Nicolas Ro­che, Fabio Baldato, Andrea Ferrigato... Uomini che ho conosciuto grazie al ci­clismo e ora sono amici veri al di là delle due ruote».

I campioni che ti hanno impressionato di più?
«Il Fabian Cancellara degli inizi alla Fas­sa: capimmo subito che aveva un grande avvenire. Uno forte forte era an­che Tom Boonen, per la vita che fa­ceva... impressionante. Non ho mai trovato uno pignolo, preciso e serio come Con­tador e infine sulla mia strada ho in­contrato un fuori categoria come Peter Sagan. Non ci sono aggettivi per definirlo, è semplicemente hors catégorie in tutto».

Di cosa avrebbe bisogno il ciclismo di oggi?
«Di tre o quattro sponsor che mettano in piedi altrettante formazioni World Tour. Non ne servono 7-8 come ai bei tempi, ne basterebbero meno per cambiare radicalmente il movimento italiano, che tornerebbe a insegnare il ciclismo al mondo. Di giovani di talento ne abbiamo sia tra i dilettanti che già in squadre pro sparsi per il mondo, ci servono le aziende che investano».

Cosa pensi dell’esasperazione del mondo amatoriale?
«Certi amatori cercano di imitare il professionista nella preparazione, ma i confronti lasciano il tempo che trovano. Il tempo che un atleta impiega per affrontare una salita in allenamento,  rispetto a quando si trova ad affrontarla in gara, è ben diverso. Prima della salita in questione andiamo a 60 km/h per due ore, nelle tappe di montagna c’è così tanta battaglia prima che vada via la fuga che noi lavoratori non aspettiamo altro che la salita per rialzarci. Io in allenamento non do mai il 100% ma solo il 70%, quel 30% in più lo riesco ad esprimere solo quando ho il numero sulla schiena e l’adrenalina della competizione addosso. E poi, fammelo di­re, ci sarà un motivo se si chiama professionismo... Gli amatori sono un be­ne perché portano avanti il mercato, ma fare certi paragoni è un’offesa per chi va in bici di mestiere e fa sacrifici fin da quando è bambino».

Favorevole o contrario all’uso in gara del­la radioline?
«Favorevole. Non bloccano la tattica, aiutano i corridori a stare uniti con i compagni e favoriscono la sicurezza.  È successo, per esempio, che per radio ci avvisassero che era caduta una moto o che al chilometro tot avremmo trovato la strada sporca e viscida per l’olio. E poi è giusto dare spazio ai nostri tecnici, non possiamo ridurli a semplici autisti. È come se ad Allegri, Mourinho o qualunque altro allenatore di calcio pa­gato milioni venisse vietato di parlare ai giocatori in campo durante la partita. È una follia».

Delle telecamerine sulle bici?
«Se c’è un buon programma di utilizzo possono essere interessanti, fanno ve­dere cosa accade in gruppo da un’angolazione inedita rispetto alle immagini delle telecamere fisse e a quelle provenienti dall’elicottero. Possono svelare dei “segreti” dall’interno del gruppo molto interessanti per l’appassionato. Vanno però usate con delicatezza, sen­za abusarne, se no torniamo al discorso di prima. Per questo non sono d’accordo sulla trasmissione in tv dei dati personali come i watt espressi da un atleta in corsa, da persone poco esperte non verrebbero capiti e dagli avversari po­trebbero essere utilizzati per capire co­me uno si allena. Per il resto, ben ven­ga lo spettacolo».

Dei misuratori di potenza?
«Sinceramente non ci ho mai pensato, dicono ci sarebbe più spettacolo senza ma per me il corridore si conosce e alla fine anche senza il dato sotto gli occhi sa se può accelerare o meno, quanto margine ha, che ritmo tenere se deve mettere in fila il gruppo. Quando bisogna attaccare e superare i propri limiti, lo si fa senza guardare il computerino, anche se ti chiami Froome. Vi ri­cor­date cosa si è inventato all’ultimo Tour?».

Come sarà la stagione che verrà?
«Offrirà sfide avvincenti. Al Giro #100 mi aspetto una battaglia a tre tra Ni­bali, che si presenta con una squadra nuova, Aru, per cui la maglia rosa sarà l’obiettivo stagionale, e Chaves, che l’an­no scorso ha fatto capire a tutti quanto vale. Al Tour vedremo confrontarsi Alberto, Froome, Quintana... Con­tador in maglia gialla? Anche se è qualche anno che non vince in Francia per un motivo o per un altro, se punta tutta la sua stagione su quelle tre settimane come aveva fatto nel 2014, con la tenacia e la classe cha ha, può tornare sul primo gradino del podio».

Hai già frequentato il corso per diventare direttore sportivo di primo livello, hai l’esame tra pochi giorni...
«Ho sfruttato il tempo libero che ho avuto a novembre, con questo titolo potrei seguire i bambini dai 7 ai 12 an­ni. Per arrivare alla massima categoria bisogna partire dalle basi, io sto co­struendo il mio futuro, pensando alle stagioni 2018-2019 voglio arrivarci con qualcosa in mano. Ho trovato il corso molto interessante, a breve procederò con i successivi. Il ciclismo mi ha dato tanto, è il mio mondo, vorrei ripagarlo occupandomi dei giovani. Ho già avuto qualche proposta per seguire junior e dilettanti, in questo mio primo anno senza corse mi guarderò attorno e poi vedremo. Dico sempre che siamo di passaggio, sia nel mondo che in questo ambiente, nel primo periodo magari mancherò a qualcuno in gruppo, poi ci saranno altri Tosatto da applaudire. A me di certo mancherà il ciclismo pedalato ma non avendo avuto offerte di li­vello ho deciso di restare in gruppo con un’altra veste. La vita continua e nel cassetto ho altri sogni da realizzare».

Ce ne sveli uno?
«Nel futuro se mi fosse proposto di fare il CT della Nazionale non mi tirerei indietro, se mi facessero questa proposta per un eventuale dopo Cassani mi piacerebbe. Davide sta svolgendo un ottimo lavoro e gli auguro di restare alla guida dell’ammiraglia azzurra a lungo, ma se si stufasse io sarei più che felice di rimettermi in gioco per la maglia azzurra. È un sogno. Bisogna puntare in alto, no?».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di gennaio
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