BETTIOL. «LAVORO, CRESCO E MI DIVERTO»

PROFESSIONISTI | 25/10/2016 | 07:34
È tornato a divertirsi e si vede. Perché? Perché va forte. Al­berto Bettiol, passato professionista nel 2014, al terzo an­no in maglia Cannondale ha finalmente trovato la sua dimensione. Il toscano, classe ’93, di cui molto bene si diceva nelle categorie giovanili, quest’anno è sbocciato tra i grandi dimostrando di avere tutte le carte in regola per diventare un ottimo corridore. In questa stagione ha debuttato al Giro d’Italia, do­po di che è stato protagonista in Po­lo­nia (terzo nella classifica finale) e al­lo Utah, ha sfiorato il successo a Plou­ay, si è messo in mostra in Canada e all’Eneco Tour, e ora vorrebbe chiudere il 2016 partecipando al Campionato del Mondo. Oltre che forte in bici, ha una bella testa, la battuta pronta e riferimenti chiari che vanno da Alfredo Martini, a cui ha “rubato” un libro, a quel Paolo Bettini che ammirava in tv e lo ha fatto innamorare della maglia az­zurra.

Vogliamo conoscerti meglio, da dove iniziamo?
«Dalla famiglia. Vivo a Castelfio­ren­tino con papà Marco, mamma Laura e mio fratello minore Cosimo, che è al primo anno tra i dilettanti con la Gra­gnano e frequenta l’istituto agrario. Sono fidanzato con Giulia dall’estate 2012, andavamo a scuola insieme, ci siamo odiati per cinque anni e pochi giorni dopo la maturità ci siamo messi insieme. Da allora sono sempre an­dato più forte perciò non posso più lasciarla (scherza, ndr). Lavora come fisioterapista, è impegnata più di me. Quando studiava ed era più libera praticava pallavolo, non è amante del ciclismo ma per amore ormai lo segue. Nel tempo libero mi piace uscire con gli amici e amo le cose semplici che interessano a un normale ragazzo di 23 anni. Una volta l’anno vado a vedere la Juventus a Torino, ho la tessera del fans club del mio paese, partiamo con il pullman e mi godo una giornata da tifoso. Apprezzo molto Jovanotti, con Giulia siamo andati a tre suoi concerti a Fi­renze, due stadi e un palazzetto. Per il resto di tempo libero ne ab­bia­mo poco, ma finite le gare una va­canza è d’obbligo. A fine ottobre an­dremo due settimane in California».

Come hai scoperto la bicicletta?
«Abito in un condominio di tre piani: noi siamo all’ultimo. Al secondo vive il presidente della società giovanile del mio paese che, quando ho compiuto 6 anni, ha chiesto al mio babbo se volevo provare. All’epoca giocavo a calcio. De­vo molto a Lorenzo Zanobini, adesso è in pensione ma segue me e Kri­stian Sbaragli, che abita a 500 metri da noi, con grande attenzione. Ripensare che ha cresciuto due ragazzi che ora sono professionisti gli fa venire i lacrimoni agli occhi e dovreste vedere come si incavola quando i telecronisti non ci ri­conoscono. Viene in trasferta a se­guirmi con la mia ragazza, lei parla inglese e lui s’intende di ciclismo così hanno composto una bella squadra (sorride, ndr). Gli devo molto, ormai è uno di famiglia. Ricordo bene la mia primissima gara, si svolgeva in un circuito chiuso in una zona industriale, arrivai terzo. Da lì in poi vinsi tanto, 10-15 gare l’anno da giovanissimo, la Coppa d’Oro da allievo, il titolo di Cam­pione Europeo della crono da ju­nior nel 2011. Mi divertivo molto».

Ora non ti diverti?
«Adesso sì. Ho sofferto un po’ il passaggio nella massima categoria, tre an­ni fa forse ero troppo giovane e immaturo per fare il grande salto ma Ro­berto Amadio credette in me e io presi al volo l’opportunità. L’anno successivo il team è diventato americano al 100%, mi sono ritrovato con nuovi compagni, email in inglese e tecnici distanti che non mi seguivano da vicino come ero abituato. Ho dovuto ripartire da zero. Ci ho messo un po’ a reimpostare il me­todo di lavoro e a trovare la mia di­mensione, quest’anno dovevo dimostrare quanto valevo. Mi sono rimboccato le maniche e sono cresciuto anche fisicamente. Da dilettante avevo corso poco, 20-30 corse l’anno e mai avevo affrontato una gara a tappe. Nel 2016 ho preso parte al Giro d’Italia. Sono stato avvisato solo una settimana prima del via, sono saltato in macchina e so­no andato a Livigno per prepararmi in altura perché dall’Amstel Gold Race non avevo più corso. Sono state tre settimane davvero dure, ma da sogno. Partecipare alla cronometro in To­sca­na, vicino casa, con tante persone a ti­fare per me, è stato magico. Da bambino ho sempre seguito la corsa rosa, vi­verla da dentro è stato fantastico. E mi è servito molto per maturare».

Quanto sei cambiato da quando sei passato professionista?
«Da Under 23 alla Mastromarco non avevo la minima idea di quello che avrebbe voluto dire essere un professionista. Al Tour Down Under, la mia prima gara tra i grandi, mi ritrovai per la prima volta a correre sei giorni di fi­la. L’impatto con una corsa World Tour mi ha fatto subito capire che avrei do­vuto lavorare tanto per arrivare davanti. Fino a quel giorno, in bici mi divertivo e andavo bene perché ero seguito passo passo dal diesse Gabriele Bal­duc­ci, ogni giorno mi chiamava per controllare quanto pesavo e come mi ero allenato, nella massima categoria ho perso un po’ i miei punti di riferimento, ho dovuto pormi degli obiettivi nuovi e avere la pazienza di crescere pian piano. Devo dire grazie a chi ha sempre creduto in me, oltre ai miei cari, a Balducci, che ormai ritengo un amico, al mio agente Mauro Battaglini, che è uno di quelli che fin da subito ha messo la faccia per me, a Roberto Ama­dio che ha scommesso sul sottoscritto anche se tra i dilettanti avevo vinto solo cinque gare e a tutto il gruppo italiano della Can­nondale con cui sono passato».

Anche l’anno prossimo vestirai la maglia Cannondale Drapac.
«Sì, dicevo che ci ho messo un po’ ad ambientarmi ma ora sono davvero sereno in questo team. La squadra non mi ha mai messo pressione e mi sostiene molto. Wegelius e Vaughters sono felici del mio rendimento. La mia stagione è stata tutta in crescendo, dopo il Giro mi sono concesso una settimana di riposo in Veneto prima di ritornare a Livigno per preparare la seconda parte di stagione. Ho fatto la “vita” da corridore al 101%, ogni giorno. Nel ciclismo le pa­role non bastano, conta il sacrificio. Il lavoro non è mai abbastanza, ma ho cercato di non lasciare nulla al caso. Al Giro di Polonia ero sicuro di far bene, ma ho superato le mie stesse aspettative: il terzo posto in classifica mi ha dato fiducia. In America mi sono messo al servizio di Talansky e Dombrowski, di­mostrando una buona gamba. Ad Am­burgo sono caduto all’ultimo giro, a Plouay ho sfiorato la vittoria e per me questo vale tantissimo. Mi sono messo in mostra al Gp Quebec e al Gp de Montreal, due corse che mi piacciono molto, in città, con un sacco di pubblico. Trovarmi davanti con gente come Sagan e Van Avermaet, per me, umile corridore di Castelfiorentino provincia di Firenze è tanta roba».

Non avessi fatto il ciclista...?
«Probabilmente sarei entrato nell’Acca­de­mia Aerospaziale di Firenze, ho la passione del volo. Mi sono diplomato al liceo scientifico statale con 73/100, poi sono entrato alla facoltà di Radiologia a Firenze ma dopo tre mesi sono passato professionista e non sono più riuscito a seguire le lezioni. Sono ancora iscritto e ho intenzione di riprendere i libri appena possibile, ma essendoci l’obbligo di frequenza al momento non posso conciliare lo studio con il ciclismo. Fino a qualche anno fa non pensavo sarei di­ventato professionista, questo mi sembrava un mondo lontanissimo tanto che il primo anno mi sentivo uno spettatore privilegiato, ero spaesato, quasi non ca­pivo ancora dov’ero finito. Ho avuto la fortuna di avere al mio fianco le persone giuste, che mi hanno fatto insistere facendomi capire che divertendomi po­tevo vincere ed è proprio questa la chiave, almeno per me. Vince chi ha più entusiasmo nel fare le cose, vedi Peter (Sagan, ndr)... Non mi ha stupito vederlo a Rio nella gara di mtb, lui si diverte ed è quello che lo fa andare forte. Ho avuto la fortuna il primo anno di correre con lui e ora di gareggiare nella sua stessa epoca, cosa che potrò raccontare ai miei nipoti. Lui è una star, come Ro­naldo o Messi, ma per me vale mille volte di più perché, nonostante tutto quello che ha vinto, non si è montato la testa».

Cosa ti piace di questo lavoro?
«Il bello di questo mestiere è che giri il mondo, frequenti hotel belli, stai in giro con brave persone, ti diverti e, lasciatemelo dire, alla lista va aggiunto anche l’aspetto economico. Se vai bene, guadagni delle belle cifre e puoi mettere da parte un gruzzoletto che oggigiorno un ragazzo della mia età fatica a portare a casa. Anche questo conta. Mio papà torna a casa dalla fabbrica dove lavora la sera tardi, mia mamma è disoccupata, perciò mi ritengo fortunato a svolgere un bel lavoro e ben remunerato. Quan­do mi lamento perché devo fare un’ora in più di allenamento, il mio babbo mi riporta con i piedi per terra ricordandomi che lui ogni giorno deve sudare al­meno 8 ore, più gli eventuali straordinari, tra polvere e sporco, mentre io sto all’aria aperta facendo ciò che mi piace di più al mondo. Di mio sono un po’ zuccone, ascolto poco gli altri, ma ho rispetto per chi è più grande di me. Per certi aspetti sono ancora un bambino, ma ci sto lavorando».

Dopo l’Eneco Tour, dove ti vedremo?
«Sono nella lista dei preselezionati per la cronosquadre mondiale e sono pronto a volare a Girona per prepararla con i miei compagni. Degli 8 atleti prescelti in 6 partiranno per Doha. In chiave mondiale lasciatemi dire che mi fa mol­to piacere che il CT Cassani abbia speso delle belle parole nei miei confronti. Al primo anno è stato emozionante vestire la maglia azzurra al Gp Larciano e al Giro di Toscana, ricordo che passai da casa e salutai nonna Gina, che ora non c’è più. L’anno scorso Da­vi­de mi schierò ad Agostoni, Pantani e Prato. Se spero in una convocazione per il mondiale? Sognare non costa nul­la. Ricordo il mondiale di Firenze 2013, ero dilettante e c’era ancora Paolo Bet­tini alla guida della nazionale maggiore, mi fece partecipare alla riunione dei prof in hotel, ho potuto ascoltare le loro tattiche e i loro piani. Da pelle d’oca».

Anche perché il Grillo è il “tuo” campione.
«Esatto. Da toscano saltavo sul divano vedendolo vincere, poi ho avuto la fortuna di conoscerlo e di apprezzarlo co­me uomo. Paolo ha vinto tutto, ma è molto alla mano. Il bello del ciclismo è che è fatto di persone umili, come diceva il grande Alfredo. Prendiamo vento, freddo, pioggia, non possiamo essere esaltati o tirarcela».

Che bello che un giovane come te citi Martini…
«Un altro toscano che ha fatto la storia. Ho avuto la fortuna di conoscerlo quando stavo per diplomarmi. Balducci mi portò a casa sua, un museo. Mi prestò un libro con dedica che mi sarebbe tornato utile per finire la tesi che stavo realizzando sulla vita di Gino Bartali. Non ebbi il tempo di ridarglielo prima che mancasse, spero da lassù mi perdonerà per averglielo rubato».

Che corridore vorresti diventare?
«Si sta per concludere l’anno olimpico, tra quattro anni sarò più maturo, non ho idea di come sarà il percorso di To­kyo ma come obiettivo a lungo termine non sarebbe male. Non ho tatuaggi, ma se un giorno mai riuscissi a vincere la medaglia d’oro mi farei senz’altro i cinque cerchi. Al di là dei sogni nel cassetto, nei prossimi anni spero soprattutto di continuare a divertirmi andando in bici, perché se così non fosse ve ne ac­corgereste subito: non sarei più lì da­vanti».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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