OMINI FA 90. «MI MANCA SOLO LA BICI, MA PRESTO TORNO A PEDALARE»
RICORRENZE | 04/10/2016 | 09:50 «Quello di oggi è un traguardo volante, ma la strada da percorrere è ancora tanta». A dirlo è Agostino Omini, dall’81 al ’94 presidente della Federazione Ciclistica Italiana, vice presidente onorario dell’Uci, il governo mondiale del ciclismo. Oggi taglia il traguardo dei 90 anni, ma a sentirlo parlare ha l’entusiasmo e la progettualità di un ragazzino che sogna di diventare il nuovo Coppi. «Mi ritengo un uomo molto fortunato, perché ho coronato il sogno di una vita: fare il dirigente sportivo per lo sport che ho sempre avuto nel cuore».
Agostino Omini, milanese, primo di otto fratelli (sei maschi e due femmine) sposato con la signora Adele e padre di Antonella ed Elisabetta e nonno di Federico ed Eleonora, muove le sue prime pedalate da dirigente nel gruppo sportivo Simonetta di Milano, una delle tante società che animano la città nell’immediato dopoguerra. Ben presto si fa notare da Adriano Rodoni, quello che per tutti è semplicemente “il presidentissimo”, il numero uno del ciclismo nazionale e internazionale, che lo nomina responsabile del settore trasporti ai mondiali di Salò, nel 1962. «Un uomo duro, austero ma geniale Rodoni, dal quale ho imparato quasi tutto», ricorda commosso Omini.
Posso chiamarla ancora presidente? «Se vuole mi fa piacere, anche se la mia carica è quella di vice-presidente onorario del ciclismo mondiale».
Presidente, ora lo può dire: quale è stato il suo campione? «Fausto Coppi, nessuno come lui. Poi però, dopo la scomparsa del Campionissimo, sono rimasto molto legato a Gino Bartali, una persona leale e buona: ci siamo voluti molto bene».
Chi sono gli amici del ciclismo che le sono rimasti più vicino? «Uno è un uomo che ama il ciclismo ma viene dal calcio: Ernesto Pellegrini, ex presidente dell’Inter. Pochi sanno che è stato ed è ancora un grande appassionato delle due ruote e negli Anni Settanta/Ottanta ha fatto tanto per il nostro sport. Poi ho un rapporto speciale con Ercole Baldini, il “treno di Forlì”, oro a Melbourne, recordman dell’ora e vincitore di un Giro (1958). Ma l’amico del cuore è Alcide Cerato, ex corridore professionista, grande dirigente sportivo, con il quale ho battagliato non poco politicamente parlando ma al quale ho sempre riconosciuto una grandissima lealtà. Oggi è davvero il mio amico più caro».
Torniamo ai corridori: nel periodo in cui è stato presidente, c’era un corridore o dei corridori per il quale nutriva ammirazione? «Ero sensibile al carisma di Felice Gimondi: uomo eccezionale, corridore unico. Ha lottato con un certo Eddy Merckx, ma ha saputo occupare uno spazio importante nella storia del ciclismo. Poi ho ammirato tantissimo anche Francesco Moser e Beppe Saronni: due ragazzi molto diversi: due autentici galantuomini».
E in tempi più recenti? «Marco Pantani: ha saputo infiammare le folle come nessuno. Al di là di quello che si può dire sulla sua tragica fine o sulla vicenda di Madonna di Campiglio, posso solo dire che quel ragazzo in bicicletta faceva cose uniche. Era la poesia fatta bicicletta».
Oggi chi le piace? «Vincenzo Nibali. È il corridore più coraggioso, continuo e generoso. Ma al ciclismo di oggi manca maledettamente l’impresa. C’è troppo calcolo e tecnologia. È tutto programmato, quindi tutto troppo prevedibile».
La gioia più grande? «Aver vissuto una vita in favore del ciclismo: ho dato tanto a questo sport, ma ho anche ricevuto moltissimo».
Nessuna delusione? «Solo qualche momento no. In mezzo alle biciclette si sta solo bene. Ecco, se proprio devo dire cosa mi dispiace - adesso come adesso - è quello di non poter più andare in bicicletta. Quest’anno, nel giro di due mesi, mi sono rotto due volte il femore. Vado ancora in giro con le stampelle. Mi hanno però assicurato che tra un paio di mesi sarò come nuovo. Non vedo l’ora di tornare a pedalare leggero e sereno. Ho ancora un po’ di strada da percorrere, senza fretta e spero con il vento a favore».
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