STORIA | 19/01/2016 | 07:41 Dopo vent’anni di professionismo, e prima altri dieci di ciclismo giovanile, dopo 15 (e forse più) giri del mondo all’altezza dell’Equatore a forza di pedali, dopo otto squadre da professionista, dopo 27 vittorie di tappa al Giro d’Italia, sei al Tour de France e 20 alla Vuelta, dopo una vittoria in una fuga – la prima, al Tour de Langkawi – e le altre 178 in volata, in Lussemburgo e in Francia, in Spagna e in Polonia, in Olanda e in Svizzera, in Germania e in Gran Bretagna, in Turchia e in Belgio, e ovviamente in Italia, dopo volate di tutti i tipi e generi fra vialoni e rettilinei, fra treni e ruote, fra sgomitate e testate, fra colpi di pedale e di genio, fra scariche di watt e di adrenalina, dopo avere indossato la maglia rosa, e dopo averla tenuta per sei giorni, dopo avere conquistato la maglia di leader nella classifica a punti al Giro e al Tour, dopo avere trionfato alla Milano-Sanremo che non è soltanto una corsa ma una classica, una classicissima, un campionato del mondo anche se di primavera, una storia geografica e una geografia storica, un’epopea italiana, un romanzo popolare infinito, dopo avere dominato la Parigi-Tours che vale come una conferma, insomma, dopo avere esplorato il mondo, scoperto il successo, trovato la fortuna, illuminato le strade, soprattutto la sua.
Domenica, per la prima volta, non in bici ma giù dalla bici, non da atleta ma ormai da allenatore, non da corridore ma finalmente da ex, Alessandro Petacchi ha – pubblicamente - sorriso e riso. E sembrava, oltre che eternamente giovane, anche sereno, leggero, commosso, grato, riconoscente, felice, sollevato, sorridendo e ridendo, in quella che – 15° Bici al chiodo, a Campagnola Emilia, quasi 500 fra corridori di tutte le razze (scalatori e passisti, capitani e gregari, stradisti e pistard) e appassionati di tutte le generazioni (amici e tifosi, spettatori e collezionisti, giornalisti e fotografi) – è la sua grande famiglia.
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