DE MARCHI. Il rosso di Buja è tornato

PROFESSIONISTI | 26/10/2015 | 09:52
«Ma il ragazzo continuava a pensare al tesoro. Quanto più si avvicinava al proprio so­gno, tanto più le cose di­ven­tavano difficili. Non funzionava più quella che il vecchio re aveva definito come la “fortuna del principiante”. Quello che valeva adesso, e lui lo sapeva, era la prova della perseveranza e del coraggio di colui che ricerca la propria Leggenda Personale. “Non esser impaziente”, si ripeté il ra­gaz­zo. “Come ha detto il cammelliere, man­gia quando è l’ora di mangiare. E cammina quando è l’ora di camminare”.

Alessandro De Marchi ha letto più e più volte questo passo de L’alchimista di Paulo Coelho, uno dei libri che gli hanno tenuto compagnia nel periodo di stop forzato. Per uno come lui, piuttosto insofferente all’inattività, non è sta­to assolutamente facile stare a ca­sa, fermo, ad aspettare che l’infiammazione al tallone d’Achille guarisse perché se è vero che ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni, a volte serve anche un pochino di pazienza. Il Rosso di Buja l’ha avuta ed è riuscito a cogliere anche gli aspetti positivi dell’infortunio che gli ha condizionato la prima me­tà abbondante della stagione, per poi tornare in gara più forte di prima.

Quattordicesima tappa della Vuelta, vittoria di De Marchi.
«La più bella e importante della mia carriera. Una bella sorpresa perché non mi aspettavo di essere così pimpante dopo poco tempo dal rientro alle corse. Non mi aspettavo di raccogliere subito soddisfazioni così grandi, anche se sa­pevo di aver fatto il massimo nel poco tempo avuto per farmi trovare pronto all’ultimo grande giro di stagione. Ho vinto più di testa che di gambe, non credo fossi il più forte quel giorno, ma mi serviva una svolta in un’annata fino ad allora storta. Dico che questo successo ha un valore maggiore rispetto a quello di Alcaudete di un anno fa e degli altri traguardi raggiunti, perché mi ha dato la consapevolezza di essere tornato ai livelli che avevo raggiunto un anno fa, cosa che non era affatto scontata visto che dal 1° aprile al 10 giugno praticamente non avevo potuto salire in bici».

Un rientro poderoso, che non è valso però il biglietto aereo per Richmond.
«Onestamente mi ha stupito la reazione della gente quando il Ct Cassani ha ufficializzato i nomi degli azzurri, io avevo già parlato con Davide e intuito la sua idea, perciò non mi ha sorpreso e non mi sento di criticare le sue scelte tecniche. Mi aveva detto che il percorso era troppo semplice per un corridore delle mie caratteristiche e che, per co­me voleva impostare la corsa, aveva bisogno di uomini che facessero un la­voro diverso da quello che potevo mettere sul piatto io. Non avermi convocato ci sta, ancor più dopo la stagione tribolata che ho vissuto. Ora è vero che sto bene ma i risultati che ho ottenuto sono arrivati tutti in montagna. La squa­dra schierata ha dimostrato il suo valore, non ha senso spendere altre pa­role. L’Olimpiade di Rio? Quello sì è un appuntamento a cui tengo. Sarà che vengo dalla pista, disciplina per cui i Giochi Olimpici sono importantissimi, ma i cinque cerchi hanno sempre avuto un grande fascino ai miei occhi. A maggior ragione se il percorso della prova in linea è impegnativo come dicono: cercherò di farmi trovare pronto, anche perché la data post Tour de France è congeniale. Davide sa come corro e co­sa posso dare quando sono al cento per cento».

Il bilancio del tuo 2015?
«Agonisticamente parlando ho perso me­tà stagione perché ho buttato via parecchi mesi dietro a questa famigerata tendinite. Tutto è incominciato dopo la Sanremo, quando stava arrivando il mio momento, quello delle classiche del nord. Invece, a causa di una infiammazione al tendine d’Achille del piede de­stro, che inizialmente sembrava di po­co conto, mi sono dovuto fermare. Pri­ma sette giorni, poi, visto il persistere del problema, altre due settimane ricche di terapie di ogni genere. Di settimana in settimana, sono arrivato a guardare sia il Giro che il Tour in tv. Probabilmente il tutto è stato causato dal sommarsi di due fattori: una vecchia storta sulla stessa caviglia rimediata a dicembre quando mi stavo allenando con la bici da crono e ad un problema ai denti del giudizio, che mi ha causato stress a livello del collo e della schiena, che si è sfogato nel mio punto debole, il tendine d’Achille appunto. Una cosa però è certa e ci tengo a ribadirla senza tanti giri di parole: le scarpette non c’entrano assolutamente».

È stato un anno da buttare?
«No, assolutamente. Questo infortunio mi ha portato indubbiamente cose ne­ga­tive, mi ha fatto perdere giorni di al­lenamento e gare, che sono fondamentali per noi corridori, però mi ha permesso in tre mesi di riassaporare le cose importanti della vita: lo stare con la mia famiglia (mamma Enrica, papà Renzo e il fratello minore Francesco, ndr), al mio paese, a casa. Dietro alla mia vittoria alla Vuelta c’è anche questo. In fon­do possono capitare problemi ben peggiori, il mio stop è stato lungo ma non doloroso. Questa pausa mi è servita mol­to, mi ha insegnato che ci sono persone su cui posso contare sempre nel bene o nel male, che tengono a me davvero e non solo perché sono salito sul podio di Parigi come corridore più combattivo del Tour de France. A chi devo dire grazie? In primis alla BMC che mi ha assistito come meglio non potevo desiderare, ha avuto pazienza nell’aspettarmi e mi ha assecondato nel gestire il problema e in generale a chi mi è sempre sta­to vicino. Alla mia fa­mi­glia: ho iniziato a correre da G1, quando dopo aver partecipato a una gim­­kana promozionale organizzata a scuola, mi sono innamorato delle due ruote e senza i miei ge­nitori già allora non sarei andato lontano. Dico grazie alle tante persone dell’ambiente delle due ruote, a chi mi segue negli allenamenti, ai fisioterapisti che mi hanno rimesso a nuovo e a tutti coloro che mi hanno supportato e per me, dopo quest’esperienza, sono diventati ancora più importanti».

E per l’anno prossimo cosa hai in mente?
«I punti cardini del mio 2016 vorrei fos­sero il Giro, il Tour e l’Olimpiade. La corsa rosa torna in Friuli, con una bella tappa, la tredicesima da Pal­ma­no­va a Cividale, che passa vicino a casa e sembra tosta come piace a me. Ho partecipato alla corsa rosa solo al mio pri­mo anno nella massima categoria, nel 2011 quando militavo all’Androni. Ai tempi della Cannondale la “corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo” passava giusto davanti a casa mia mentre io ero in Norvegia a gareggiare. Enzo Cainero, responsabile delle tappe friulane, me l’ha perdonata solo perché al Tour andai bene, mi sono salvato in corner con il numero rosso (ride, ndr). La Grande Boucle è indescrivibile, non si può paragonare a nulla però da italiano avverto il Giro come la “nostra” corsa, dopo anni di Tour e Vuelta pro­vo il desiderio di tornare a disputare la corsa rosa. Mi piacerebbe godermi la tappa di casa per vivere quest’esperienza. Impazzirei di gioia a passare con il Giro d’Italia tra la mia gente».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di ottobre
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