PROFESSIONISTI | 19/09/2015 | 07:38 «La giovine Italia» sogna con il giovane Diego Ulissi, che tra i giovani è stato capace di vincere due titoli mondiali juniores consecutivi, e ora che è tra i grandi ma è pur sempre “giovine”, spera di guidare “ il risorgimento” del ciclismo italiano. È vero, non c’è più un Paolo Bettini. Lo sa bene Cassani, lo sa pure Ulissi e lo sappiano tutti noi che di ciclismo ci nutriamo quotidianamente, ma a qualcosa dobbiamo pur credere ed aggrapparci, soprattutto dobbiamo piantarla di guardare a quello che è stato e sarà sempre troppo tardi quando ci metteremo una pietra sopra e volteremo definitivamente pagina.
Non abbiamo più un Paolo Bettini, probabilmente neanche un Michele Bartoli, ma è cosa buona e giusta credere in questo ragazzo dal nome doppio - Diego Armando, come il “pibe de oro” -, ma unico per talento e indole: pigro come pochi, competitivo come nessuno. «Come si dice, fatico a mettermi in moto, ma poi è difficile fermarmi. Datemi l’abbrivio e vi solleverò il mondo», dice lui divertito. Per quanto ci riguarda a noi basta che ci conquisti il mondo, quello dei grandi, dopo averlo conquistato per due volte quello riservato ai più piccini «una vita fa», aggiunge lui.
Due titoli mondiali conquistati fra gli juniores avrebbero potuto fiaccare l’appetito di chiunque: troppi onori, troppe aspettative e troppa voglia di trovare un nuovo Bettini o un nuovo Bartoli. Lui, anche in questo, è stato bravo: ha lasciato dire e fare con calma olimpica - sempre per rimanere nel campo epico -, lui che di Ulisse ha la voglia di mettersi in gioco, di osare e rischiare. «Spero solo che la mia carriera non sia un’odissea - aggiunge sornione -, perché mi sembra di aver già dato, di aver già pagato dazio, di aver già circumnavigato a sufficienza attorno agli obiettivi. Ora vorrei alzare l’asticella e rendermi più concreto. Fare il salto di qualità. Questo è quello che vi aspettate voi, ma anch’io…».
Cerca la vittoria di peso nella roulette russa di Richmond, ma a Diego sarebbe andata anche bene una vittoria più leggera, sfiorata per altro al Giro di Polonia, tappa di Zakopane, stazione sciistica sui monti Tatra. Tutti lo tengono d’occhio, scatti e controscatti, non vogliono arrivare con il toscano allo sprint. Il belga Bart De Clercq, uno che finora ha vinto una corsa in sei anni di carriera - la settima tappa del Giro d’Italia 2011 con arrivo a Montevergine di Mercogliano - coglie il momento giusto e fila via.
«Come ebbi modo di dire quel giorno, avrei preferito vincere la tappa anziché vestire la maglia di leader - ricorda -. Cosa posso dirti? Mi ha anticipato. È stato bravo. Io però ero un po’ stanco, anche perché ero al rientro dopo il Giro. Prima di staccare qualche giorno avevo corso solo il Matteotti. Quel giorno la tappa era stata davvero dura, con oltre quattromila metri di dislivello. Nel finale ero rimasto solo e non potevo certo rincorrere tutti» racconta.
Dopo il Polonia l’Eneco Tour, per fare chilometri, per immagazzinare fatica. Poi Plouay, il Canada, prima del Pantani e di Prato… «E poi c’è il Mondiale. Cassani mi ha fatto vedere i suoi video: il percorso mi garba parecchio. Mi dicono che avrei anche potuto correre la Vuelta in preparazione della sfida iridata, ma con Michele (Bartoli, ndr), Brent Copeland e tutto il mio staff abbiamo convenuto che il percorso è troppo duro per preparare il Mondiale. La seconda settimana è terribile mentre il tracciato di Richmond non ha dislivelli particolari. Sarà più importante velocizzare. Fare allenamenti specifici».
Ti sei fatto un’idea di chi sarà l’uomo da battere o gli uomini da tenere d’occhio? «Un mondiale è sempre difficile, ma mi sembra un percorso perfetto per corridori come Philippe Gilbert o Greg Van Avermaet».
Forse a te andava meglio un tracciato come quello di Ponferrada… «Quello mi piaceva un sacco, ma sapete tutti in che pasticcio ero finito».
In ogni caso a Richmond potrebbe essere per te la prima volta da capitano azzurro: anche questo è un buon motivo per essere orgogliosi. «Io devo molto al ct Davide Cassani, perché è da un anno che mi ripete: a Richmond sarai la nostra punta. Io di questo ne vado molto fiero, mi piace l’idea e mi piace mettermi in discussione. Certo, su quel tracciato bisognerà correre molto bene, essere molto attenti e reattivi. Io avrò il compito di provarci fino alla fine, se poi sarà volata ci penseranno i velocisti».
Due mondiali vinti da Juniores, da professionista, fino a questo momento, non bene… «Quello di Varese, da under 23, non l’ho corso perché al Tour de l’Avenir mi ero ammalato. A Mendrisio, l’anno dopo, c’ero ma anche in quell’occasione non stavo bene: mononucleosi e mi sono dovuto ritirare. In Olanda, mio primo mondiale da professionista, sono andato così così. Mentre in Toscana sono caduto e poi la pioggia e il gelo mi hanno dato il colpo di grazia. Insomma, dopo i due successi da junior, meglio non parlarne, ma sono ancora giovane, e penso di poter arrivare a dire la mia».
Ma il ciclismo italiano è così mal messo come può sembrare? «E chi lo dice? Secondo me nelle corse di un giorno abbiamo tanti ragazzi che stanno crescendo e potrebbero per presto incominciare a dire la loro. Nelle corse a tappe abbiamo Vincenzo (Nibali, ndr) e Fabio (Aru, ndr), due corridori che vorrebbe avere chiunque. Solo noi italiani non li apprezziamo per quello che sono».
Se è per questo corri per una squadra, la Lampre-Merida, che è l’unica formazione italiana di WorlTour e non è considerata come meriterebbe. «È verissimo. La Lampre-Merida ormai è un modello. Quello che mi fa rabbia è che viene quasi derisa perché non ha un budget stellare come quello di Sky, Katusha o Astana. Ma in questi ultimi anni quasi tutti i team hanno ridotto il tetto degli ingaggi, diciamo pure che la gestione oculata e professionale di Beppe Saronni sta facendo scuola. Spendere sì, ma con cognizione di causa».
Dopo queste belle parole urge aumento… «No, dopo quello che detto rischio una denuncia. A parte gli scherzi, non lo dico per piaggeria, ma perché credo in quello che dico. Il ciclismo mondiale non è così ricco e florido come si dice. Si vuol far credere che sia un problema solo italiano. Non è così».
Cosa pensi della stagione di Nibali?... «Che quando ti gira male… È così, da dopo il Tour vinto non è mai stato sereno. Viaggi, polemiche per la licenza alla squadra, Vinokourov sempre sul banco degli imputati, una squadra costantemente nell’occhio del ciclone. Poi il Tour, sfortunato ma medicato da grande campione quale è, perché c’è gente che si prepara una vita per arrivare quarto in Francia. Con tutto il rispetto, Vincenzo ha pagato una prima settimana molto difficile e sfortunata, dove non è stato adeguatamente supportato dal suo team».
E del cartellino rosso preso alla Vuelta? «Ha sbagliato e ha chiesto scusa, fine. Certo che quelle cose lì accadono davvero sempre e in tutte le corse, e mandare a casa un grande campione alla prima tappa di un Grande Giro…».
Torniamo a te: tra pochi giorni il mondiale, tra un anno le olimpiadi di Rio… «È un evento al quale io non ho mai preso parte. Mi piacerebbe poterci essere, da protagonista».
Senti già l’adrenalina iridata? «Un po’ sì, non vedo l’ora».
Certo, non porti gli orologi. «Mi danno fastidio, e il bello è che continuano a regalarmeli».
Ti piace però sorseggiare un buon bicchiere di vino… «Quello sì, anche se potrei essere molto più preparato e addentro alla questione, visto che mia mamma Donatella lavora da anni all’Ornellaia, una delle più prestigiose aziende vinicole del mondo. Ho libri da tutte le parti, ma non ho punto voglia di leggere. I vini preferisco collezionarli e berli con calma: anche con il vino non bisogna avere fretta».
Hai intenzione di invecchiare in un buon “barrique” anche tu? «Assolutamente no. Come ti ho detto, in bicicletta sono smanioso e desideroso di andare sempre avanti. Ho appena compiuto 26 anni, non penso di essere vecchio. Sono un vino novello».
La prima corsa? «A Piombino, avevo 6 anni, categoria G1 e maglia dell’Uc Donoratico: arrivo terzo. La vittoria va al mio amico Elia Favilli, con il quale ho ingaggiato duelli memorabili. La seconda gara a Marina di Cecina ed è subito vittoria. E dopo di questa, ne arriveranno una montagna: più di cento».
Tante le vittorie, quali quelle da ricordare?… «Da allievo vinco due edizioni consecutive della Coppa d’Oro oltre ad un titolo italiano a cronometro. Da juniores con la maglia della Vangi Cycling Team vinco due titoli mondiali: nel 2006 sul circuito di Spa-Francorchamps in Belgio; e nel 2007 in quel di Aguascalientes, in Messico, davanti ai compagni di Nazionale Daniele Ratto ed Elia Favilli. Dal gennaio 2008 a tutto il 2009 corro con la maglia della Seano Hopplà, per poi esordire nella categoria Professionisti all’inizio del 2010 con la divisa della Lampre-Farnese Vini».
La prima bicicletta? «Una Francesco Moser blu».
Ti piaceva lo sceriffo? «No, i miei corridori erano Marco Pantani, Miguel Indurain e soprattutto Paolo Bettini e Michele Bartoli…».
Ora Michele è il tuo preparatore. «E ne vado fiero, con lui c’è una bellissima intesa: ho un feeling molto particolare. E poi ha un’esperienza impagabile».
Come ti sei avvicinato al ciclismo? «Per caso: papà Mauro (che lavora al ministero della Difesa di Livorno, ndr) correva tra gli amatori in mtb e vinse anche un titolo italiano: andando a vedere lui, è venuta la passione anche a me».
La più grande delusione della tua carriera? «La squalifica e il Mondiale di Firenze: ci tenevo parecchio. Purtroppo ho patito moltissimo il freddo sul San Baronto e poi nell’entrata sul circuito di Firenze, quando sono rimasti coinvolti in una caduta tra gli altri Evans e Samuel Sanchez, ho evitato di finire per le terre, ma ho subìto un danno alla ruota posteriore. Mi sono dovuto fermare e cambiare bici. Poi, nel corso del secondo giro su Fiesole, sono caduto e ho rimediato una bella botta al bacino. Insomma, non è stata una grande giornata eppure ci tenevo tantissimo a fare bene quel giorno».
Quali sono le tue passioni? «L’ozio. A parte gli scherzi, amo moltissimo muovere i pollici per azionare la consolle della mia Playstation: ci passerei delle ore, a casa, in albergo, in ritiro, ovunque».
Il tuo compagno di allenamento. «Manuele Mori, con il quale divido anche la camera quando siamo in trasferta: è unico».
Ti piace mangiare? «Moltissimo, soprattutto cose vere, di sostanza. Piatto? Pappardelle con il cinghiale e poi cinghiale in umido, annaffiato da un bel bicchiere di Brunello di Montalcino del ’90: ho una collezione di vini che piacerebbe a molti».
Ultima domanda: il podio del mondiale? «Lo sapevo... ma è meglio che i pronostici li facciano altri, io non sono portatissimo».
L’importante è che tu vada forte a Richmond, magari una medaglia… «Hai detto bene, magari».
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