STORIA | 03/08/2015 | 10:45 Cento anni fa, oggi. Cento: un secolo, un altro millennio, una infinità di vite, di vite di corsa, e di ruote. Nasce cento anni fa, oggi: il 3 agosto 1915, quando l’Italia è già entrata in guerra, la Prima guerra mondiale. E’ il primo di otto figli, sette maschi e una femmina. Montanini, lui viene battezzato Trento. Il secondo, del 1918, sarà Trieste. L’ispirazione patriottica finisce lì. I Montanini sono montanari, del Frignano, Appennino modenese. Il nonno di Trento è del 1854, ha un doppio lavoro, venditore di cioccolato e materassaio, nessun conflitto di interessi. Il papà di Trento fa il calzolaio e gli piace il Lambrusco, come a tutti i calzolai e a tutti i barbieri. A Trento piacerà anche, anzi, soprattutto, la bicicletta. Con quel fisico – asciutto, scattante, agile, smilzo – è uno scalatore. Il lavoro, controllore, settore energia elettrica, un po’ lo aiuta, un po’ lo frena. Ma gli rimane la passione, anche la competenza. Direttore sportivo dell'Unione Sportiva Pavullese dal 1946 finché un giorno la vita, una vita di corsa, e di ruote, e non soltanto a Pavullo nel Frignano, cambierà per sempre.
E' l'agosto del 1955. La stagione del ciclismo è già mezzo andata. Ma al bar si parla di corse e di corridori, di ciclismo. Vecchie storie di un vecchio amore, a Pavullo. Al Giro d’Italia del 1928 ha partecipato anche un pavullese, Giuseppe Mazzini, non Mazzini lo statista, ma Mazzini detto Peppino, muratore di Verica, che è lì nel Frignano, verso il fondovalle Panaro. Peppino non ha squadra, è un isolato, ma ha il senso dell’avventura: corre le prime due tappe, la terza spedisce un telegramma, "mandatemi cento lire che torno a casa". Gliele mandano. E Peppino torna a casa. Al bar gli chiedono: e Binda? Peppino non dev’essere mai stato in testa, davanti. Infatti risponde: "Binda? Mi hanno detto che c’era".
Al bar c’è Trento. Un’istituzione, un'autorità, un personaggio. Forse quel giorno si parla di Coppi, forse si rimpiange Bartali, forse si ricorda Girardengo, quando al bar arriva Ciocco, chiamato così perché vende cioccolata. "C’è un ragazzo, magro, secco, spilungone": è Meo, Romeo Venturelli. "Però ha un baraccone": è la sua bici. Trento non nega una mano a nessuno, gli altri neanche. Mettono insieme due ruote e un telaio, a Meo regalano anche qualche consiglio, per allenarsi, e ci mettono poco a capire che lui, Meo, non ha capito, ma fa niente, è una questione di coscienza, e poi, prima o poi, capirà. Meo abita al Sasso, oltre Lama Mocogno, e se Pavullo è montanara, Sassostorno è quasi alpina. Meo è un purosangue: grezzo, ma forte, duro, inesauribile. Meo, gli chiedono, sai andare? "Sì che so andare", giura Meo, "dal Sasso a Lama so andare anche con uno sulla canna". Però: è salita. "E non mi viene neanche il fiatone".
Uno così come Meo capita ogni cento anni, si dicono al bar. Trento lo osserva, lo studia, lo valuta, gli prende le misure, lo iscrive alla prima corsa utile, la Coppa d'Inverno, a Parabiago, nel Milanese. Non c'è mai abbastanza tempo, si va sempre di fretta: il tesserino è quello di un altro. Meo, che corsa, è una rivelazione: ottavo assoluto e primo fra gli esordienti. Poi sarà un'epopea, tra fughe e inseguimenti, tra attacchi e volate, tra vittorie e trionfi, anche tra dubbi e abbandoni, tra incertezze e vuoti, tra rimpianti e rinunce, una carriera mitica, una parabola leggendaria. Quella volta che Meo decolla sulla Rocca delle Caminate, quella volta che Meo viene raggiunto solo perché gli altri sono risucchiati dalle auto, quella volta che Trento va a piedi al Santuario di San Luca perché in caso di vittoria (e Meo ha vinto) lo ha promesso alla Madonna, quella volta che al mare Meo scopre le donne, quella volta che Meo vuole vincere ma solo in volata ma deve accontantarsi della volata del gruppo, tutte quelle volte che Trento e Meo vanno alle corse in Lambretta, Trento davanti che guida, Meo dietro con la bici in spalla, tutte quelle volte che i pavullesi si tassano per finanziare Meo, quella volta che Meo annuncia di essere passato alla Brooklyn di Empoli, quella volta che Coppi va a Pavullo per conoscere Meo, per pedalare con lui, per ingaggiarlo nella sua squadra, quella volta che Meo batte Anquetil a cronometro, Van Looy in volata, Gaul in salita, quella volta che sta per conquistare il Giro del Lazio pedalando con i mocassini.
Oggi Trento compie cento anni. E la sua memoria non ha perduto un colpo di pedale. Trento elenca corse, recita ordini di arrivo, detta classifiche generali, infligge ritardi e distacchi, descrive polpacci e caviglie, rivela stratagemmi e strategie, e quando gli sfugge un nome o una data, si assolve con un “fa niente”. E' perfino capace di amareggiarsi o esaltarsi ancora per un corsa del Novecento. E se Girardengo e Binda, Bartali e Coppi, perfino Meo si sono staccati il dorsale, lui no. Lui e il ciclismo no. Perché Trento Montanini è il ciclismo.
Fa piacere leggere quanto scrive Pastonesi, il ciclismo ha bisogno di rigenerarsi attingendo dalla sua ricca storia, come ha detto qualcuno "senza radici non si vola". Aspetto con interesse e curiosità le prossime storie.
Bartolomeo
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