CONSONNI. «Che noia la pianura, che bella la fatica»

DILETTANTI | 16/04/2015 | 12:16
Simone Consonni è l'uomo del giorno, vincitore ieri in maglia azzurra de La Cote Picarde, seconda prova di Coppa delle Nazioni. Proprio sul numero di aprile di tuttoBICI gli abbiamo dedicato una lunga servizio che vi proponiamo di leggere.

Il giovane talento che vi presentiamo su questo numero è Si­mo­ne Con­sonni del Team Colpack. Vent’anni di Ponte San Pietro (BG), si de­finisce un velocista atipico: sprinta veloce, ma odia la pianura. Lo annoia e per combattere la monotonia degli allenamenti si cimenta, con buoni risultati, anche nei velodromi. Azzurro all’ultimo Campionato del Mondo su pista a Saint Quentin, convocato dai Commis­sa­ri Tecnici Cassani e Amadori per disputare un paio di prove su strada tra i professionisti, a suon di volate (tut­t’altro che noiose) si è conquistato il titolo di “dilettante del mese”. Ec­colo.

Chi è Simone Consonni?
«Un ragazzo nato il 12 settembre 1994 a Bergamo. Vivo a Brembate di Sopra con mamma Michela, che di lavoro fa i mestieri in casa nostra e soprattutto di altri, e i miei fratelli minori Daniel e Chiara. Daniel correva ma ha smesso da qualche anno per dedicarsi al calcio, mentre Chiara è allieva 2° anno nella Eurotarget di Fidanza. Papà Corrado è artigiano e non vive con noi, visto che i miei sono separati. Tutta la mia famiglia mi segue quando gareggio in zona: quando ho vinto a Perignano (PI) un paio di settimane fa purtroppo non c’erano, ma è stato bello togliersi la prima soddisfazione della stagione. Una vittoria che mi ha sbloccato: due settimane più tardi, nell’ultimo weekend di marzo, ho firmato una bella doppietta vincendo al sabato la Milano-Busseto e 24 ore più tardiola Piccola Sanremo in Veneto. Emozioni forti, davvero...».

Cos’hai studiato?
«Mi sono diplomato l’anno scorso geometra all’istituto Giacomo Qua­reng­hi di Bergamo. Purtroppo ho per­so un anno alle medie da stupido, ma crescendo ho ripreso la retta via. La stagione scorsa è stata difficile perché non è semplice conciliare libri e allenamenti, ma sono soddisfatto di aver terminato le scuole. Se avessi mollato, di si­curo me ne sarei pentito più avanti. Ora però la mia testa è concentrata al 100% sulla bici».

Hai hobby particolari?
«No, il tempo libero mi piace trascorrerlo con gli amici ma non ho problemi anche a stare da solo. Mi piace andare al centro commerciale, giusto per girare un po’, non sono un amante dello shopping. Sono molto appassionato di musica, la ascolto sempre e di tutti i generi. Fidanzata? Al momento non ce l’ho».

Caratterialmente che tipo sei?
«Sono abbastanza tranquillo, mi piace divertirmi, come piace a tutti i ragazzi della mia età d’altronde, ma lo sport che pratico è un po’ limitante in questo senso. Vale la pena fare tanti sacrifici, oserei dire che non li avverto neanche come tali visto che mi sono prefissato determinati obiettivi, tra i quali fare del ciclismo la mia professione. Sono un buono, generoso, anche in corsa. A vol­te questo è un pregio, certe persone se ricevono un favore sanno essere riconoscenti, altre volte è un difetto perché c’è chi se ne approfitta».

E come corridore?
«A dirla tutta, non so definirmi con certezza. Devo ancora capirmi (sorride, ndr). Tutti dicono che sono un velocista, ma io odio le corse piatte. Non han­no senso, sono noiose. Mi piacciono mol­to di più quelle mosse, alla fine delle quali la vittoria se la giocano in 30-40 corridori. Le mie misure? 177 centimetri per 75 chili».

Chi ti ha trasmesso la passione per il ci­clismo?
«Ho iniziato a pedalare per un colpo di fortuna, visto che in famiglia nessuno praticava il ciclismo, grazie ad un amico di papà che aveva i figli che an­davano in bici. Propose a papà di portarmi al campo di atletica, dove si svolgevano gli allenamenti due volte a settimana. La mia prima gara? Me la ricorda sempre mio padre perché, essendo vicina a casa, mi venne a vedere tutta la famiglia e dovette sorbirsi tutto il giorno le preoccupazioni di mio nonno Gianni che riteneva questo sport troppo pericoloso per un bambino. A parte questo, non è il caso di citare i risultati con­seguiti. Il ciclismo non sembrava proprio lo sport adatto a me. Da giovanissimo ero scarsissimo, mi doppiavano sempre, ma mi divertitvo a stare as­sieme ai miei amici così ho insistito».

Chi sono i tuoi compagni di allenamento?
«Quando i miei compagni di squadra sono in ritiro nella bergamasca esco con loro, al­trimenti mi capita di uscire con Davide Villella, mio ex compagno di squadra ora professionista della Can­nondale e raramente con Gian­franco Zi­lioli, anche lui ex Col­pack ora all’Androni. Di frequente mi alleno da solo perché ho diversi lavori da fare e poi noi dilettanti gareggiamo un sacco».

L’emozione più forte vissuta in sella?
«La prima che mi viene in men­te è la delusione provata in maglia azzurra da junior quando al Campionato Eu­ro­peo dell’inseguimento a squadre arrivammo quarti. È l’unica volta che ho pianto per una corsa. Per i miei compagni di quartetto una medaglia di bronzo non valeva tanto ma per me era importantissima perché io credo e investo molto nella pista. Pensando a episodi più allegri, ho provato un’emozione stupenda al Gran Premio Nobili quando mi sono trovato a pedalare in salita di fianco a Fabian Cancellara. L’anno scorso avevo avuto occasione di pedalare in gruppo con Nibali e Sagan alla Coppa Bernocchi ma non mi ha fatto quest’effetto. Spartacus non è nemmeno il mio idolo, a dirla tutta non ho un campione preferito (mi piacciono i corridori che attaccano, quelli da classiche come Philippe Gilbert), ma trovarmelo a fianco in gara è stato strano e bello».

L’insegnamento più importante ricevuto dal ciclismo?
«Il rispetto per l’avversario. Questo sport è davvero una scuola di vita, devo ringraziare la mia famiglia che mi ha sempre appoggiato e mi ha permesso di praticarlo, ma anche gli allenatori che mi hanno seguito fin da quando ero bambino. Lungo la mia strada ho avuto la fortuna di incontrare l’allenatore giusto per ogni categoria. Da G1 ad Allievo ho corso per la squadra del mio paese, la Brembate Sopra Poli­sportiva Marco Ravasio, e mi sono di­vertito un mondo seguito da Angelo Beloli. Da Allievo 2° anno in poi mi ha preso sotto la sua ala Marco Russo, che considero tutt’oggi un grande ami­co ed è colui che mi ha insegnato come si corre tatticamente. Da Junior secondo anno ho militato nella Aurea Zanica con direttore sportivo Paolo Lan­fran­chi. Lì è cambiata la storia, ho iniziato a fare le cose più sul serio, per esempio ho scoperto il cardiofrequenzimetro che fino a quel momento non avevo mai usato in allenamento».

Da tre anni indossi la maglia della Col­pack.
«Esatto. In questo team mi trovo be­nissimo e, anche qui, ho sempre fatto le cose gradualmente. Al primo anno ho tirato e tanto, per Ruffoni, Villella, Zilioli, Colonna.... Non ho fatto altro che tirare, ma mi è servito. L’anno scorso ho iniziato a ritagliarmi qualche spazio e quest’anno ho la possibilità a tutti gli effetti di dimostrare quanto valgo. Ci tengo a ringraziare i tecnici che ci seguono, Antonio Be­vilaqua, Gianluca Valoti e Rossella Dileo e a dire un grazie speciale al nostro presidente Col­leoni, senza il quale non potremmo fa­re niente. In questa squadra non ci man­ca proprio nulla, abbiamo a nostra disposizione tutti gli strumenti per correre al me­glio».

Meglio la pista o la strada?
«Tengo molto a entrambe. D’estate mi alleno tanto e almeno un giorno a settimana lo trascorro in pista, anche per distrarmi un po’ svolgendo dei lavori diversi dal solito e che mi pesano meno dei lunghi allenamenti su strada. Come penso accada alla maggior parte dei corridori, mi pia­ce allenarmi ma non mi fa impazzire, per questo preferisco diversificare un po’ i lavori. All’ultimo mondiale su pista sono stato schierato nell’inseguimento a squadre e sa­pete co­me è andata. Per­sonal­men­te mi ero allenato be­ne ed ero certo avremmo colto un bel risultato. Realisticamente sarebbe stato difficilissimo entrare tra i primi otto, ma avremmo regalato all’I­ta­lia una bella prestazione. I tempi fatti registrare i giorni precedenti ci avrebbero garantito una bella figura. Pur­troppo un giudice a pochi istanti dal via ha costretto i nostri meccanici a cambiarci i manubri e così abbiamo dovuto correre con quelli delle ragazze e misure completamente diverse. Io ho corso con il manubrio della Guderzo, che era il più basso a disposizione, e avevo i gomiti che sbattevano sulle gi­nocchia. Ora ci ridiamo su, ma allora è stato il panico totale».

Soddisfatto del tuo inizio di stagione?
«Sì, finora è andato tutto bene. Ci voleva proprio la vittoria per stare più tranquillo. In squadra, come detto, mi tro­vo benissimo, siamo in tre molto veloci, visto che oltre a me ci sono Minali e Lamon. Ab­biamo dimostrato di poter convivere bene assieme, lavorando l’uno per l’altro a turno siamo già riusciti a vincere tutti e tre».

Come è andata l’esperienza al GP Costa Etruschi e al GP Nobili con la Na­zio­nale?
«Molto bene, soprattutto nella prima delle due corse che hai nominato. Al Costa Etruschi, prima corsa in assoluto della stagione 2015, ho tenuto duro sulle due salite in programma e in volata, nonostante ci sia arrivato senza gam­be, sono riuscito a portare a casa il 7° posto. Sono felice di essermi fatto vedere. Prossimi obiettivi? Ogni corsa è importante, ci terrei particolarmente a far bene al Liberazione dove l’anno scorso sono arrivato secondo dietro al russo partito poco dopo il via e che non siamo più riusciti a riprendere. Vin­si la volata del gruppo, ma quella vittoria mancata mi è rimasta qua. Contatti con squadre professionistiche? Niente di concreto per ora, spero arrivino presto perché non ce la faccio più a correre con i dilettanti».

In che senso?
«In questa categoria è una guerra dal primo all’ultimo chilometro, è tutto troppo esasperato, sembriamo tutti matti. Dopo 10 chilometri c’è già chi si butta nella mischia come un pazzo, è tutto uno scatto e controscatto, ragazzi che si buttano dentro da tutte le parti. Un macello. Tutti vogliamo mettersi in mostra per strappare un contratto professionistico, è molto stressante. Spero di fare il grande salto alla fine di quest’anno, non vorrei trascorrere un’altra stagione di qui ad “am­maz­zarmi”. Vorrei passare di là, dove si va davvero forte ma ci sono schemi precisi, ruoli e compiti ben definiti, ognuno ha il suo spazio. Se avrò l’occasione, non ci penserò due volte. Il mio sogno è fare di questa mia grande passione un lavoro, da svolgere il più a lungo possibile».

Giulia De Maio
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