KWIATKOWSKI, CAMPIONE UNIVERSALE

PROFESSIONISTI | 25/02/2015 | 07:30
Sono passati esattamente due an­ni dalla prima volta che in­tervistai Michal Kwiatkow­ski. «Se vuoi una dritta, non limitarti a intervistare Cavendish e Boo­nen, fai due chiacchiere anche con Kwiato. Questo ragazzino farà ben presto parlar di sé» mi aveva suggerito il suo direttore sportivo Davide Bramati. Eravamo all’Hotel Vista a San Luis, la prima corsa della stagione. Ci ritroviamo nella stessa hall dello stesso albergo due stagioni dopo, cresciuti entrambi e con tante cose da raccontarci. Da allora Michal non pare cambiato per nulla, è sempre il ragazzino con le orecchie a sventola, il naso a patata e il sorriso genuino di qualche stagione fa, il polacco che nel team risolve i problemi di informatica a compagni e tecnici, smanettone con computer e cellulari, responsabile a ogni trasferta di comprare tessere telefoniche e internet stra­niere per connettere il gruppo. Il suo palmarès però si è arricchito, Kwiato ha indosso una maglia che tutti gli invidiano e a 24 anni il 99% dei corridori possono solo sognare. All’inizio della sua sesta stagione da pro, la quarta con la Etixx-Quick Step, sentirlo par­lare ci conforta: ha la maglia iridata sulle spalle ma i piedi ben saldi a terra. Gentile e disponibile come sempre, a due anni di distanza non si nega a una lunga chiacchierata davanti a un caffè, sempre sotto l’occhio vigile del Brama che, ovviamente, non ci risparmia un «io l’avevo detto».

Dopo il mondiale ti sei fatto un regalo?

«Niente di speciale in realtà, dopo il Lombardia ho semplicemente festeggiato con famiglia e amici. Forse a loro sarà sembrata una festa grande, per me più che l’imponenza era importante riab­bracciare le persone più care. Dopo un anno in giro per il mondo - sarò stato 250 giorni via da casa - per me è fondamentale trascorrere la pausa in­vernale a Toruń, a sud di Danzica (è na­to in un paesino poco distante, a Dzia­lyn il 2 giugno del ’90, ndr). Ho ritrovato mio fratello Rodoslaw, che ha tre anni pù di me e che mi ha trasmesso la passione per il ciclismo all’età di 10 anni quanfo ho iniziato a pedalare per imitare lui; i miei genitori (quando era piccolo avevano una fattoria, ma da una decina di anni a questa parte il pa­dre lavora in una fabbrica e la madre fa la casalinga, ndr), le mie due sorelle: una che ha 2 anni meno di me e la piccola che ha 7 anni, che non hanno mai avuto niente a che fare con le due ruote ma mi hanno sempre supportato nel se­guire i miei sogni; la mia fidanzata Aga­ta, al mio fianco dai tempi delle scuole, e gli amici storici».

Specialized ha ideato per te una grafica celebrativa per bici e casco. Ti piace?
«La adoro, dal primo momento che l’ho vista. Si vede che è stata pensata per me, con colori vivaci e disegni che ricordano il mio soprannome (fiori, ndr) e il mondo, un gioiellino di arte moderna che mi inorgoglisce parecchio. Mi fa piacere sapere che ai tifosi piace e anche sul mercato sta andando a ruba. Un campione del mondo deve agghindarsi così, anche l’occhio vuole la sua parte perciò per onorare questa bellissima maglia bisogna in qualche modo dettare lo stile».

Cosa è cambiato nella tua vita?

«Dopo Ponferrada la mia vita è cambiata, ma in meglio. Ho dovuto organizzare meglio la mia agenda, andare a destra e a sinistra tra premiazioni, inviti, appuntamenti con gli sponsor e quant’altro. L’inverno è stato più impegnativo del solito e ora alle corse sono più ri­cercato dai giornalisti e dai tifosi, ma so che fa parte del gioco. Vengo più ri­conosciuto, famoso se vogliamo usare questo termine, nel mio paese e nel mon­do, ma consapevole che devo davvero rimanere concentrato per investire il mio tempo al meglio: pianificando al­lenamenti, riposo e impegni, e rimanere quello che sono. Non sono cambiato come persona, non devo cambiare per continuare a raggiungere traguardi im­portanti. Non sono cambiate soprattutto le persone più vicine a me, quelle a cui do ascolto».

Come si fa a non montarsi la testa dopo aver vinto un campionato del mondo a soli 24 anni?

«Credo che i valori trasmessi dalla mia famiglia e il trattamento in squadra sia fondamentale. Ho per compagni campioni che hanno vinto molto e sanno darmi consigli preziosi. Sia Cavendish che Boonen mi hanno raccontato di co­me sia stato per loro gestire la stagione post-Mondiale, soprattutto Tom che vin­se quando aveva più o meno la mia età e, arrivando da un paese come il Belgio dove il ciclismo è sport nazionale, ha subìto il triplo di pressioni ri­spetto a quelle che sto vivendo io. Tom mi ha detto di non dimenticare mai la strada che ho percorso per arrivare al successo, i sacrifici fatti e le persone che mi sono state vicine. Mi ha suggerito di non ascoltare i consigli dei “nuovi amici”, quelli ar­rivati dopo. Rimanere se stessi è la chiave per non perdere il controllo della situazione».

Hai cambiato residenza come fanno quasi tutti i corridori quando iniziano a guadagnare molti soldi?

«No, passo gran parte dell’anno in Spa­gna e da giugno in poi trascorro più tempo nel sud della Polonia dove ci sono belle salite per allenarsi e il clima è splendido. Non ho cambiato preparazione né zone di allenamento da quando sono passato professionista nel 2010 in maglia Caja Rural. Al primo an­no ero un bambino spaventato di correre con i professionisti, al secondo alla Radio­Shack ho avuto la possibilità di partecipare a corse più importanti e una volta passato nel team più forte del mondo sono migliorato ulteriormente anno dopo anno. Questo è il mio quarto an­no nel gruppo di Lefevere e non potrei chiedere di meglio. Per quanto riguarda gli allenamenti, la popolarità non è un problema, ho una regola chiara quando esco in bici: non mi fermo mai. I tifosi lo devono capire, è il mio lavoro, prima e dopo l’allenamento so­no a disposizione per foto e autografi ma mentre non posso proprio».

Prosegue il tuo impegno con la Coper­nicus Cycling Academy?
«Sì, ora abbiamo 120 ragazzini seguiti da sei allenatori, di cui due sono stati i miei primi due tecnici. A Toruń c’è la School of Sports in cui sono cresciuto, da cui ho preso spunto per questo progetto nato a settembre di due anni fa. La missione di questa accademia è di far avvicinare i giovani al ciclismo, fa­cendo divertire con varie attività bambini di 8-10 anni e insegnando questo sport ai ragazzi più grandi. Dall’anno passato collaboriamo attivamente con la squadra di juniores ActiveJet Team che mira alla crescita delle nuove promesse del pedale polacco. Personal­men­te ho aiutato il progetto a nascere, per avviarlo ho investito del denaro in prima persona, ora abbiamo tante azien­de che ci sostengono e ci lavorano attivamente persone di cui mi fido. Mi piace incontrare questi ragazzini a fine stagione, dare loro dei consigli, ascoltare i loro desideri e nel mio piccolo po­terli aiutare a realizzare le loro ambizioni. Vorrei che un bambino che so­gna un giorno di essere un ciclista professionista possa riuscirci, come ho fatto io».

Non è certo una cosa comune, per un ra­gazzo della tua età, agire concretamente per il futuro dello sport che pratica.

«Forse in Italia o in Belgio appare strano perché tutti sanno come funziona il ciclismo ad alti livelli e ci sono strutture a cui un ragazzo si può rivolgere, ma in Polonia non è così. Attraverso la mia persona e il mio esempio posso di­mostrare ai più giovani che oltre a po­ter diventare calciatori o quant’altro possono pensare a una carriera agonistica nel mondo delle due ruote. Biso­gna avere tanta passione, essere disposti ad affrontare la fatica, allenarsi in maniera costante, avere pazienza e far­si consigliare dalle persone giuste. A un ragazzino che sogna di arrivare do­ve sono arrivato io voglio mostrare la strada per arrivarci, quando ero piccolo mi sono trovato in questa condizione perciò voglio rendermi utile».

Quanto sei popolare ora nel tuo Paese?

«Abbastanza. Per darvi un’idea mi sono classificato al terzo posto come atleta dell’anno dietro a Kamil Stoch, doppio oro olimpico nel salto con gli sci e al pallavolista Mariusz Wlazly. Quindi sono famoso ma non il numero uno (sorride, ndr). Il 2014 è stato un anno speciale per lo sport polacco, ab­biamo con­quistato diverse medaglie ai Giochi Olimpici invernali, il mondiale maschile di pallavolo e nel ciclismo ci siamo fatti davvero onore, non solo grazie a me. Basti pensare a quello che ha saputo fare Majka al Tour, alla crescita del Tour de Pologne e più recentemente all’invito ricevuto dalla CCC Sprandi al Giro d’Italia. CCC sponsorizza anche la nostra nazionale, ambisce ad avere un World Tour Team, da una decina di anni ormai investe nel ciclismo. Sarebbe fantastico un giorno correre un mondiale in casa, so che Czeslaw Lang (or­ga­niz­zatore del Giro di Polonia, ndr) ci sta facendo un pensierino...».

I tuoi compagni cosa dicono?
«Mi prendono bonariamente in giro, ma quello che mi rallegra è che lo facevano anche prima di Ponferrada. Ri­cordo Cav e Renshaw al Tour of Bri­tain, prima del mondiale, che mi dicevano “se vestirai la maglia iridata non farti mai fare i pantaloncini bianchi, se li indosserai ti toglieremo il saluto, non ti parleremo più”. È bello sapere che avevano fiducia in me».

Come hai trascorso l’inverno?

«Ho riposato per cinque settimane, poi sono tornato in sella il 10 novembre, come avevo fatto l’anno scorso. Ho la­vorato bene, mi sento in palla e finora sono contento. So che avrò una grande pressione sulle spalle, ma non mi faccio schiacciare: oltre alla bicicletta, ho altri interessi per fortuna. I miei hobby cambiano ogni paio di mesi, sono un ve­ro appassionato di tecnologia, in que­sto periodo mi diverto a registrare video con i droni, ma tra tre mesi mi sarà passata. Solo la passione per la bi­ci non svanirà mai. Lavoro per essere sì un corridore migliore, ma anche una persona migliore e questo mi dà una grande motivazione. Sarò più controllato? Certamente, ma questo non può rappresentare un problema per me, an­che se sono consapevole che ora co­mincia il difficile».

Il tuo calendario cosa prevede?

«Dopo San Luis, sarò alla Volta a Al­garve, poi Parigi-Nizza, Milano-San­remo, Gand-Wevelgem, Vuelta al País Vasco, Amstel Gold Race, Freccia Vallone, Liegi, Giro di Svizzera e Tour. Ho scelto la Parigi-Nizza al posto della Tir­reno per poter recuperare meglio in vi­sta della Classicissima, che negli ultimi anni non sono riuscito a portare a termine. Vorrei far bene nelle Ardenne, in cor­se che amo. Per essere competitivo nelle grandi corse a tappe mi manca ancora qualcosa nell’ultima settimana, devo accumulare esperienza e crescere ancora, cosa che posso fare solo rimanendo con i piedi a terra. I miei grandi obiettivi per quest’anno saranno la San­remo, le classiche delle Ardenne e il Tour de France. So di avere ancora mol­to da imparare, specialmente in una corsa complicata come la Grande Boucle. E sono convinto che si possa imparare soprattutto dai giorni difficili, piuttosto che da quelli in cui si vince. Al Tour si apprende ogni giorno, ogni tappa, ogni edizione. E quest’anno ci andrò con la voglia di far bene e di im­parare, senza pormi obiettivi specifici: sarà fantastico correrlo con la maglia iridata. Punterò a vincere qualcosa nel­la prima settimana, visto che sarà un susseguirsi di tap­pe che assomigliano a classiche. Ma se non ci riuscirò, non avrò problemi a la­vorare per la squadra. Ovviamente per finire la stagione ci sarà il mondiale. Andrò a vedere il percorso di Ri­chmond tra maggio e giugno con la federazione polacca, da campione in carica, anche quello sarà un appuntamento da onorare».

Se dovessi scegliere una sola corsa da vincere?
«Devo davvero sceglierne una?».

No. Di solito la maglia iridata non porta benissimo: sei scaramantico?
«Non più di tanto, dipende tutto da che prospettiva guardi gli eventi secondo me. Al Lombardia, la mia prima corsa dopo Ponferrada, mi sono venuti i crampi a due chilometri dal traguardo. Non è stato un evento eccezionale, il 90% delle corse si perdono, non puoi essere in forma e fortunato sempre, ma se vesti la maglia iridata sei solo più vi­sibile perché hai le telecamere che ti riprendono».

Hai raggiunto il massimo risultato che si possa desiderare: cosa puoi volere ancora?

«Dal mio punto di vista non ho ancora raggiunto il top, ci sono ancora molte cose che posso fare nel ciclismo, molte corse che voglio vincere. Mi aspettano gare monumento, grandi corse a tappe, per le quali devo migliorare ancora. Non sono appagato».

Cosa vuoi dire a Bramati, che in tempi non sospetti aveva detto che un giorno sa­resti diventato campione del mondo?

«Grazie della fiducia, a lui e al resto del team. Brama è una persona e un pro­fessionista eccezionale, un direttore sportivo preparato che sa portare sempre il sorriso in squadra. Alle corse, anche quando i risultati non arrivano o c’è qualche problema, è in grado di farci venire il buon umore e di motivarci. Nel ciclismo è fondamentale credere sempre che puoi arrivare a raggiungere il traguardo che ti sei prefissato, lui riesce a trasmetterci questa convinzione».

Giulia De Maio, da tuttoBICI di febbraio

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